LA DANZA DELL’INFEDELTA’ CONTEMPORANEA: IL TRADIMENTO EMOTIVO

(fonte: immagine tratta dal web)

“L’intimità è una questione di sguardo. Parlerò con te, mio amato, e dividerò con te i miei beni più preziosi, che non sono più la mia dote e il frutto del mio grembo, ma le mie speranze, le mie aspirazioni, le mie paure, i miei desideri, i miei sentimenti: in altre parole, la mia vita interiore. E tu, mio amato, mi guarderai con attenzione. Non smanettare col cellulare mentre metto a nudo la mia anima. Ho bisogno di sentire la tua empatia e la tua legittimazione. Il mio significato dipende da questo.” 

(Esther Perel (2018), “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà” Solferino, pag.65)

Per quanto antico, il tema dell’infedeltà coniugale rappresenta un argomento ancora oggi avvolto da vergogna e tabù: parlarne con oggettività è assai complesso, perché il rischio di cadere in riflessioni dal tono moraleggiante è prevedibile.

Partiamo dall’inizio: già dal primo appuntamento, quando due si incontrano, stabiliscono (anche un po’ inconsapevolmente) un insieme di regole e di ruoli, iniziando a tracciare confini per definire ciò che è dentro e ciò che fuori. Ovvero, l’io, il tu, ed il noi di coppia. L’infedeltà di coppia rappresenta una violazione del patto di fiducia tra due persone che hanno scelto di stare insieme.

Fino ad un paio di generazioni fa, il matrimonio era rappresentato da un contratto tra due individui all’interno del quale l’amore era un valore aggiunto: il vincolo matrimoniale serviva principalmente a garantire sopravvivenza economica e riscontro sociale. Paradossalmente l’infedeltà poteva rappresentare quell’area, al di fuori del legame coniugale, in cui poter sperimentare sentimenti ed emozioni, dove potersi realmente innamorare. Del piacere e della sessualità, poi, non ne parliamo perché i rapporti sessuali servivano esclusivamente a procreare: la fedeltà coniugale e la monogamia, oltre che rappresentare le basi del patriarcato imposti alle donne, servivano a garantire patrimonio e discendenza, niente di più, niente di meno. Sposarsi era per la vita, senza o con pochissime vie di fuga, bisognava restare insieme nella buona e nella cattiva sorte, finché la morte non ci avrebbe separato.

Partendo anche dall’esperienza clinica odierna con le coppie, sto osservando quanto siano cambiate moltissime cose, e quanto sia forte e frequente nei più un desiderio in particolare: oggi vogliamo essere “felici”. La felicità non rappresenta più un desiderio, un’ambizione, ma in certi casi un ordine, e a volte la pretendiamo quasi con senso di rivalsa, come se dovessimo riscattarci da chissà quante ingiustizie o delusioni accumulate magari anche a causa di quel legame che non si è rivelato secondo le nostre aspettative e ci ha reso infelici. La qualità della nostra relazione coniugale è diventata un aspetto fondamentale per il raggiungimento della “felicità”. In questo periodo storico, non sono tanto i nostri desideri ad essere diversi, ma è cambiata la forza e la motivazione nel realizzarli, anzi ci si sente quasi in obbligo a perseguire certi obiettivi, dopo svariati periodi di sofferenza. Ci sentiamo in dovere nei nostri confronti, non importa se a rimetterci saranno coloro che amiamo: noi ed il nostro benessere psichico veniamo al primo posto. 

Saranno questi i passi della nuova danza dell’infedeltà contemporanea?

Un tempo ci si tradiva perché il matrimonio era carente di amore e passione; oggi si tradisce perché il matrimonio non riesce ad offrire l’amore, la passione e l’attenzione incontrastata che ci aveva promesso e che, ad un certo punto, non abbiamo più trovato. Ci sentiamo illusi e si avverte il bisogno di cercare altrove.

Il bisogno di essere più felici può portare a volgere lo sguardo al di fuori della coppia, soprattutto quando ci sentiamo annoiati, poco capiti ed arricchiti emotivamente, con la possibilità che si venga ad affacciare un preciso desiderio: ritrovare quell’intimità emotiva attraverso il tradimento, un gesto che va a rappresentare un disperato tentativo di riaccendere quel fuoco che un tempo ci faceva sentire desiderati, speciali, visibili, degni di attenzione, e che oggi sembra essersi spento (Perel, 2018). 

Per quanto sia legittimo, pensare di poter soddisfare tutti i nostri bisogni emotivi attraverso un’unica persona è una faccenda delicata, perché potrebbe rendere la relazione più vulnerabile: consegnare nelle mani del partner il compito di renderci persone serene, felici e risolte è assai pericoloso, perché si rischia di investirlo di una serie di responsabilità che non è tenuto a rispettare in toto. 

L’infedeltà ha molto a che vedere con il desiderio di sentirsi desiderati, speciali, visibili: queste sensazioni portano, senza dubbio, un coinvolgimento che ci riporta a vita nuova, è pura energia al sapore di trasgressione che scorre nelle vene. Ecco perché si parla sempre di più dell’infedeltà come una violazione non solo dell’intimità fisica, ma anche e soprattutto emotiva: il partner, solitamente, rappresenta il nostro punto di riferimento emotivo, la sola persona con cui condividere i nostri bisogni più profondi, i rimpianti, i nostri sentimenti più inquieti. Il tradimento emotivo rappresenta un modo di ricreare, al di fuori della relazione “ufficiale”, quella vicinanza intima ed emotiva che dovrebbe essere riservata al partner: se quel legame si è costruito sull’intimità emotiva e sull’onestà assoluta, aprire la nostra vita interiore ad un terzo, pur non essendoci alcun avvicinamento fisico, potrebbe sembrare certamente un tradimento.

Tradire “emotivamente” è una possibilità che per molti rappresenta l’opportunità di vivere una realtà “parallela”, nella quale poter immaginare, scoprire e reinventare sé stessi. Innamorarci di qualcuno di estremamente differente da noi, ad esempio, qualcuno che non potrebbe mai diventare un partner di vita, rappresenta quell’evasione, quella trasgressione che ci porta a rompere le regole di una quotidianità di coppia che alcuni sentono fatta di doveri ed obblighi. La clandestinità, elemento chiave dell’infedeltà, rappresenta un modo per scoprire nuove parti di sé, una nuova identità, magari una sconosciuta ed intrigante versione di noi stessi. 

Ricostruire ed identificarsi in questi passaggi può essere di aiuto nel comprendere perché anche persone con matrimoni o relazioni soddisfacenti siano attratti dal tradire il partner: il potere seduttivo della trasgressione può rivelarsi improvvisamente, soprattutto per chi ha sempre condotto una vita normativa e “responsabile”, e più o meno consapevolmente sogna di infrangere le regole. Un vero e proprio atto di ribellione verso quei ruoli che ci sono stati assegnati o a cui ci siamo rassegnati di dover adempiere, e dai quali ci siamo sentiti imprigionati. La dimensione del tradimento può rappresentare quella possibilità di vivere le vite che non abbiamo mai vissuto, di conoscere una nuova parte del proprio Sè. 

L’altra complessa parte legata all’infedeltà è rappresentata dal grande dolore del partner che subisce il tradimento: chi viene tradito attraversa un vortice di insicurezza e di confusione perché tutto quello che di sicuro e rassicurante aveva costruito insieme all’altro è crollato, ed anche i momenti felici, soprattutto quelli più intimi, sono venuti meno e non possono essere più portati alla mente con amore ed affetto. La ferita intima di una tale mancanza di fiducia tocca l’autostima, ci si sente meno meritevoli di essere amati, si può provare vergogna ed umiliazione. Il carico emotivo è devastante, perché dopotutto il nostro partner ci sta comunicando che non siamo più così unici e speciali come avevamo creduto, mandando in frantumi il cuore di una relazione ed i progetti di una vita insieme. Il momento della rivelazione è al pari di un trauma, anche per tutta la gamma di reazioni che lo accompagnano: rabbia incontrollata, dissociazione, pensieri intrusivi sono solo alcune delle modalità con cui si può reagire ad uno choc simile.

Il tradimento è un’esperienza complessa, e sperare di non imbattersi in una situazione del genere è ovviamente auspicabile. In psicoterapia, quando incontriamo una situazione di infedeltà coniugale, l’obiettivo è capire il significato di un tale evento, e collocarlo all’interno della storia di quella specifica relazione: per quanto possa sembrare assurdo, il tradimento (emotivo e non) è sicuramente una ferita immensa, ma, se lo si desidera, è possibile rimarginarla. Per la coppia può addirittura diventare un’occasione per ri-conoscersi, per crescere, poiché dietro la figura del “traditore” e del “tradito” ci sono due persone, provenienti da vissuti e storie differenti. Cercare di dare un significato a ciò che è successo e comprenderne le cause non vuol dire giustificare o sminuirne la portata; significa dare una forma più umana all’accaduto, provando ad accogliere chi abbiamo davanti con un atteggiamento non giudicante e moralizzante, mirato esclusivamente all’aiuto della coppia e/o del singolo.

Questo articolo nasce a partire dalla lettura di un libro che mi ha molto ispirata. Per chi desiderasse approfondire l’argomento, consiglio fortemente il testo della dott.ssa Esther Perel, terapeuta di fama mondiale: “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà”, edito da Solferino.

“Quando due persone devono affrontare il fatto di aver vissuto due realtà diverse ma senza che una di loro ne fosse al corrente, si tratta di un crollo devastante: pochi altri eventi nella vita di una coppia, forse solo la morte e la malattia, possiedono una forza tanto distruttiva”. (Esther Perel, 2018, pag.83)

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

ESSERE ADOLESCENTI NELL’ERA DEGLI ‘I-GEN’: LA SOLITUDINE RELAZIONALE DIETRO LO SCHERMO

Il periodo estivo, si sa, rappresenta quasi per tutti, giovani e meno giovani, un momento in cui i frenetici ritmi quotidiani vanno a rallentarsi per fare spazio al relax e ad un maggior tempo libero: in parole povere, diamo il benvenuto alle tanto desiderate vacanze!

Per svariati motivi, i mesi estivi, inoltre, rappresentano un periodo dell’anno in cui le relazioni sociali aumentano: il rallentare del tempo e la temporanea pausa dai soliti tram tram quotidiani ci portano ad organizzare e a prendere parte, con maggiore frequenza, a feste, grigliate, giornate al mare e/ o in montagna, viaggi, cene, rimpatriate, concerti, insomma tutte occasioni che rappresentano un modo per appagare quel maggiore bisogno di leggerezza e socialità che l’estate porta con sé.

Eppure, soprattutto tra le ultime generazioni, può accadere che l’avvento delle alte temperature e l’aumentare del tempo libero rappresentino un momento estremamente faticoso per relazionarsi maggiormente faccia-a-faccia, con la conseguenza di lasciarsi andare ad un vizioso circolo di solitudini, o, al più, sostituendo le interazioni virtuali a quelle in carne ed ossa. Potrebbe sembrare, dunque, che l’attività “dietro lo schermo”, che sia di un pc o di uno smartphone, e l’utilizzo delle piattaforme social, dovrebbero aiutare a sentirci meno soli e a circondarci da amici in ogni momento, tanto quanto tra persone in carne ed ossa, ma non è detto che sia propriamente così.

Nel 2017 la dott.ssa Jean Marie Twenge, docente di Psicologia alla San Diego University, grazie ad un accurato ed appassionato studio, ha presentato il fenomeno delle “iGeneration”, bambini e ragazzi nati tra il 1995 ed il 2012; la dott.ssa Twenge ha evidenziato che, tra le tendenze principali che definiscono tali generazioni, e quindi, l’intera società, vi è l’incorporeità, cioè il declino delle interazioni sociali, e l’isolamento, privilegiando la tendenza all’iperconnessione, ovvero la scelta del cellulare a discapito di altre attività.

Sembra che gli iGen, che trascorrono numerose ore della loro giornata sui social, in realtà siano più propensi ad ammettere: “Spesso mi sento solo”, “Spesso mi sento escluso”, “Spesso vorrei avere più amici veri”, dando conferma del fatto che gli adolescenti che passano più tempo con gli amici in carne ed ossa siano più felici, meno soli e depressi, a differenza di quelli che trascorrono intere ore, se non giorni, sui social, risultando più tristi e solitari.

Tale studio sembrerebbe confermare che le relazioni vis-à-vis rappresentino un importante fattore di protezione proprio per difendersi dalla depressione e dalla solitudine, non solo nel periodo estivo, ma in generale: l’uso massiccio e costante dei social rischia di diventare un misero surrogato dei legami emotivi e delle abilità sociali, rischiando di contribuire alla crescita della depressione e di altri disturbi correlati alla salute mentale tra i teenager.

Gli iGen, che di fatto saranno gli adulti “di domani”, stanno crescendo in un mondo dove la comunicazione online prevale sempre più, ma non possiamo non considerare che le relazioni e le abilità sociali saranno sempre necessarie: per dare esami all’università, per viaggiare, per lavorare, per crearsi una famiglia, per dare un senso alla propria esistenza. Anche se spesso le esperienze con i social media sono positive e aiutano ad integrarsi, queste non possono assolutamente sostituire le relazioni concrete: “Se hai contatti con le persone in carne ed ossa, stare con loro ti porta ad avere emozioni reali. Fare qualcosa insieme, ottenere risultati insieme, ti fa stare bene, capito? Si condividono emozioni, si litiga e si fa pace. Con i social media non si provano davvero queste sensazioni“, dice Kevin, 17 anni.

Le abilità sociali richiedono impegno ed esercizio, come imparare a leggere e a scrivere: per questo è importante incentivare gli iGen a svilupparne, poichè a differenza dei loro genitori, sono sicuramente meno motivati a credere di più in tali competenze. Spesso conoscono l’emoji più adatta per ogni occasione, ma non la giusta espressione del viso, come guardare le persone negli occhi, parlarci insieme, comprenderne i sentimenti.

Insomma, come adulti e come genitori delle generazioni future, l’impegno che possiamo e dobbiamo assumerci è di far capire ai nostri figli che le relazioni rappresentano un vero e proprio investimento per il loro futuro: iGen (e non!), mollate la presa visiva dagli schermi ed iniziate a guardarvi e a parlarvi di più faccia-a-faccia!

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Twenge Jean Marie, (2018), “Iperconnessi – Perchè i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti“, Einaudi Editore, Torino.

IMMAGINE CORPOREA E RELAZIONI: L’INCONTRO CHE CURA

“Breve storia amorosa dei vasi comunicanti”, Davide Mosca, Einaudi 2019.

La relazione col proprio corpo è, da sempre, un argomento complesso: social, mass media, pubblicità ci mostrano quanto sia importante, in un’epoca come la nostra, essere sempre al massimo delle nostre possibilità. Portare in giro per il mondo un’immagine corporea socialmente condivisa ed accettata è diventata quasi una missione di vita: è fondamentale poter mostrare un aspetto esteriore preferibilmente curato e di gradevole presenza, che possa rispettare “una forma ideale”.

Può succedere, però, che ad un certo punto della nostra esistenza, la nostra identità psichica si “perda” in quella corporea: è ciò che accade ai protagonisti del romanzo che ha ispirato questo articolo, “Breve storia amorosa dei vasi comunicanti”, di Davide Mosca, edito da Einaudi.

In un certo senso, il principio dei vasi comunicanti rincorre l’equilibrio perfetto, garantendo che due contenitori, collegati tra loro, saranno in grado di bilanciare la quantità dei liquidi contenuti al loro interno: i “vasi comunicanti” protagonisti di questo romanzo, ambientato in Liguria, sono Remo, scrittore ventiquattrenne che, dopo essere diventato obeso a seguito di varie vicissitudini, per la vergogna decide di rinchiudersi in sé stesso ed isolarsi socialmente, e Margherita, giovane liceale anoressica, alle prese col costante controllo delle calorie da ingerire, e relative difficoltà familiari da gestire.

Dopo alcuni mesi di conoscenza, a Capodanno si peseranno: Remo si ritroverà dimagrito, Margherita in netto recupero verso il suo peso forma. Le zavorre che Remo inizia a perdere, in kilogrammi e rispetto a sè stesso, passano magicamente nel corpo di Margherita, facendole riprendere peso, facendole riprendere vita.

Entrambi, almeno inizialmente, sembrano due personaggi assai differenti: col trascorrere delle pagine, conoscendoli, scopriamo che Remo e Margherita non solo sono accomunati dal desiderio di voler essere invisibili, ma che il cibo rappresenta quel canale attraverso cui condannarsi ed assolversi. Il grasso, così come l’estrema magrezza, appaiono metafore di un involucro che li isola dall’esterno, e li protegge da ciò che accade emotivamente al loro interno: “Dal cuore le emozioni salivano con fatica, e arrivavano senza più vigore al cervello”.

Attraverso il corpo, vivono la fuga dal proprio corpo e da quello altrui, sottraendosi ad ogni tipo di incontro, e si ritrovano, così, a vivere in un tempo “sospeso” (Onnis, 2014), bloccato, all’interno del quale entrambi sono impegnati nel soddisfacimento dei loro bisogni di crescita e di individuazione, comunicando, altresì, una legittima paura di crescere.

La loro, è una storia di mancata accettazione verso sé stessi, e mostra come la disistima e l’allontanamento dalla propria anima, dalla propria identità, porta ad isolarsi e a non riconoscersi più, rifiutando qualsiasi forma di legame.

Eppure, è una storia che parla di salvezza.

La soluzione, come dice lo scrittore, è un incontro: quando incontriamo qualcuno, incontriamo sempre una parte di noi, magari proprio quei lati che rifiutiamo. Per Remo e Margherita, il loro incontro rappresenterà quell’antidoto ad hoc per combattere la solitudine ed il senso di inadeguatezza che li affligge, restituendo loro la speranza e la motivazione per potersi (terapeuticamente) salvare a vicenda.

Ciò che colpisce di questo romanzo è la sua estrema concretezza, poiché porta alla luce delle importanti difficoltà relazionali che le nostre generazioni vivono, e mostra quanto queste difficoltà siano fortemente correlate allo standard estetico, gettando nella disperazione esistenziale gran parte dei nostri ragazzi e dei giovani adulti, laddove vengano a verificarsi occasioni di rifiuto o di esclusione sociale.

La possibilità di entrare in relazione con gli altri, l’esperienza di potersi affidare autenticamente ad un incontro in cui non ci si sente giudicati, ma apprezzati e riconosciuti anche nelle parti più fragili, rappresentano una vera e propria fonte di rinascita, per chi, come Remo e Margherita, e per tutti coloro che si sono immedesimati, non hanno saputo affidare da subito la propria salvezza ad una nuova possibilità: l’affascinante esperienza dell’incontro con l’altro.

Bibliografia

Onnis L. (2014), “Il tempo sospeso – Anoressia e bulimia tra individuo, famiglia e società“, Franco Angeli, Milano.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

DANZANDO CON LE RELAZIONI

La danza della vita, Edvard Munch, 1899, Galleria Nazionale di Oslo.
La danza dell’amore di una donna, attraverso le varie fasi del ciclo di vita.

” I rapporti si scelgono e subiscono, si costruiscono e distruggono

vari versatili e variabili, non sottometterli a una norma.

E pensare che alle volte sembra ci imprigionino,

e pensare che altre volte invece non ci bastano

uno che ci faccia ridere, un altro piangere,

come sempre, come ovunque, come noi.

Niccolò Fabi, Rapporti

Il mio interesse per le relazioni, per i rapporti, probabilmente nasce nel momento in cui sono venuta al mondo: sono sempre stata incuriosita ed affascinata dall’interazione con l’altro, dall’ascoltare altre storie diverse dalla mia, dello stare in contatto.

Dunque, come mai la scelta di pensare alle relazioni come uno spazio terapeutico e metaforico in cui poter danzare, assieme? La danza, se vista come un linguaggio accessibile a tutti, rappresenta uno strumento di inclusione sociale, e l’utilizzo che facciamo del nostro corpo, nel suo significato originario, si mostra come veicolo primario di cui disponiamo per relazionarci con il mondo. 

In psicoterapia avviene la stessa cosa: che sia un percorso individuale, di coppia o familiare, terapeuta e paziente decidono di mettersi in relazione attraverso il proprio corpo, e a seconda del tipo di percorso scelto. Potremmo trovarci davanti ad una coreografia in cui è il solo paziente ad esserne protagonista; oppure un passo a due, come nella terapia di coppia; o ancora, una coreografia di gruppo, nel caso di una terapia familiare. Il palcoscenico su cui ci si esibisce è rappresentato dallo spazio terapeutico che il singolo, la coppia o la famiglia co-costruisce assieme al proprio terapeuta.

Il movimento è un aspetto fondamentale della relazione terapeutica, che porta con sè l’obiettivo della possibilità di scelta per il soggetto in terapia. E’ un processo di continua trasformazione, all’interno del quale avvengono numerosi scambi di significati. Ecco perchè, quando parliamo di relazione tra due o più individui, la si può paragonare ad una danza in cui si è in funzione reciproca: nello specifico della relazione terapeutica, il paziente è in funzione del terapeuta, e viceversa.

Il cambiamento e la crescita, dunque, non avvengono perché è il terapeuta a sollecitarlo, ma perché si viene a creare una relazione in cui il singolo, la coppia o le famiglie si sollecitano a vicenda, all’interno di una propria sinfonia, con l’obiettivo di trovare un proprio ritmo ed un proprio tempo, esattamente come nella danza.

Questo blog nasce dal desiderio di poter condividere, con chi lo visiterà, numerosi aspetti della mia professione di psicologa e psicoterapeuta, e degli interessi che gravitano attorno a queste discipline, a me molto care.

Buona navigazione!

Dott.ssa Valeria Gonzalez