LA DANZA DELL’INFEDELTA’ CONTEMPORANEA: IL TRADIMENTO EMOTIVO

(fonte: immagine tratta dal web)

“L’intimità è una questione di sguardo. Parlerò con te, mio amato, e dividerò con te i miei beni più preziosi, che non sono più la mia dote e il frutto del mio grembo, ma le mie speranze, le mie aspirazioni, le mie paure, i miei desideri, i miei sentimenti: in altre parole, la mia vita interiore. E tu, mio amato, mi guarderai con attenzione. Non smanettare col cellulare mentre metto a nudo la mia anima. Ho bisogno di sentire la tua empatia e la tua legittimazione. Il mio significato dipende da questo.” 

(Esther Perel (2018), “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà” Solferino, pag.65)

Per quanto antico, il tema dell’infedeltà coniugale rappresenta un argomento ancora oggi avvolto da vergogna e tabù: parlarne con oggettività è assai complesso, perché il rischio di cadere in riflessioni dal tono moraleggiante è prevedibile.

Partiamo dall’inizio: già dal primo appuntamento, quando due si incontrano, stabiliscono (anche un po’ inconsapevolmente) un insieme di regole e di ruoli, iniziando a tracciare confini per definire ciò che è dentro e ciò che fuori. Ovvero, l’io, il tu, ed il noi di coppia. L’infedeltà di coppia rappresenta una violazione del patto di fiducia tra due persone che hanno scelto di stare insieme.

Fino ad un paio di generazioni fa, il matrimonio era rappresentato da un contratto tra due individui all’interno del quale l’amore era un valore aggiunto: il vincolo matrimoniale serviva principalmente a garantire sopravvivenza economica e riscontro sociale. Paradossalmente l’infedeltà poteva rappresentare quell’area, al di fuori del legame coniugale, in cui poter sperimentare sentimenti ed emozioni, dove potersi realmente innamorare. Del piacere e della sessualità, poi, non ne parliamo perché i rapporti sessuali servivano esclusivamente a procreare: la fedeltà coniugale e la monogamia, oltre che rappresentare le basi del patriarcato imposti alle donne, servivano a garantire patrimonio e discendenza, niente di più, niente di meno. Sposarsi era per la vita, senza o con pochissime vie di fuga, bisognava restare insieme nella buona e nella cattiva sorte, finché la morte non ci avrebbe separato.

Partendo anche dall’esperienza clinica odierna con le coppie, sto osservando quanto siano cambiate moltissime cose, e quanto sia forte e frequente nei più un desiderio in particolare: oggi vogliamo essere “felici”. La felicità non rappresenta più un desiderio, un’ambizione, ma in certi casi un ordine, e a volte la pretendiamo quasi con senso di rivalsa, come se dovessimo riscattarci da chissà quante ingiustizie o delusioni accumulate magari anche a causa di quel legame che non si è rivelato secondo le nostre aspettative e ci ha reso infelici. La qualità della nostra relazione coniugale è diventata un aspetto fondamentale per il raggiungimento della “felicità”. In questo periodo storico, non sono tanto i nostri desideri ad essere diversi, ma è cambiata la forza e la motivazione nel realizzarli, anzi ci si sente quasi in obbligo a perseguire certi obiettivi, dopo svariati periodi di sofferenza. Ci sentiamo in dovere nei nostri confronti, non importa se a rimetterci saranno coloro che amiamo: noi ed il nostro benessere psichico veniamo al primo posto. 

Saranno questi i passi della nuova danza dell’infedeltà contemporanea?

Un tempo ci si tradiva perché il matrimonio era carente di amore e passione; oggi si tradisce perché il matrimonio non riesce ad offrire l’amore, la passione e l’attenzione incontrastata che ci aveva promesso e che, ad un certo punto, non abbiamo più trovato. Ci sentiamo illusi e si avverte il bisogno di cercare altrove.

Il bisogno di essere più felici può portare a volgere lo sguardo al di fuori della coppia, soprattutto quando ci sentiamo annoiati, poco capiti ed arricchiti emotivamente, con la possibilità che si venga ad affacciare un preciso desiderio: ritrovare quell’intimità emotiva attraverso il tradimento, un gesto che va a rappresentare un disperato tentativo di riaccendere quel fuoco che un tempo ci faceva sentire desiderati, speciali, visibili, degni di attenzione, e che oggi sembra essersi spento (Perel, 2018). 

Per quanto sia legittimo, pensare di poter soddisfare tutti i nostri bisogni emotivi attraverso un’unica persona è una faccenda delicata, perché potrebbe rendere la relazione più vulnerabile: consegnare nelle mani del partner il compito di renderci persone serene, felici e risolte è assai pericoloso, perché si rischia di investirlo di una serie di responsabilità che non è tenuto a rispettare in toto. 

L’infedeltà ha molto a che vedere con il desiderio di sentirsi desiderati, speciali, visibili: queste sensazioni portano, senza dubbio, un coinvolgimento che ci riporta a vita nuova, è pura energia al sapore di trasgressione che scorre nelle vene. Ecco perché si parla sempre di più dell’infedeltà come una violazione non solo dell’intimità fisica, ma anche e soprattutto emotiva: il partner, solitamente, rappresenta il nostro punto di riferimento emotivo, la sola persona con cui condividere i nostri bisogni più profondi, i rimpianti, i nostri sentimenti più inquieti. Il tradimento emotivo rappresenta un modo di ricreare, al di fuori della relazione “ufficiale”, quella vicinanza intima ed emotiva che dovrebbe essere riservata al partner: se quel legame si è costruito sull’intimità emotiva e sull’onestà assoluta, aprire la nostra vita interiore ad un terzo, pur non essendoci alcun avvicinamento fisico, potrebbe sembrare certamente un tradimento.

Tradire “emotivamente” è una possibilità che per molti rappresenta l’opportunità di vivere una realtà “parallela”, nella quale poter immaginare, scoprire e reinventare sé stessi. Innamorarci di qualcuno di estremamente differente da noi, ad esempio, qualcuno che non potrebbe mai diventare un partner di vita, rappresenta quell’evasione, quella trasgressione che ci porta a rompere le regole di una quotidianità di coppia che alcuni sentono fatta di doveri ed obblighi. La clandestinità, elemento chiave dell’infedeltà, rappresenta un modo per scoprire nuove parti di sé, una nuova identità, magari una sconosciuta ed intrigante versione di noi stessi. 

Ricostruire ed identificarsi in questi passaggi può essere di aiuto nel comprendere perché anche persone con matrimoni o relazioni soddisfacenti siano attratti dal tradire il partner: il potere seduttivo della trasgressione può rivelarsi improvvisamente, soprattutto per chi ha sempre condotto una vita normativa e “responsabile”, e più o meno consapevolmente sogna di infrangere le regole. Un vero e proprio atto di ribellione verso quei ruoli che ci sono stati assegnati o a cui ci siamo rassegnati di dover adempiere, e dai quali ci siamo sentiti imprigionati. La dimensione del tradimento può rappresentare quella possibilità di vivere le vite che non abbiamo mai vissuto, di conoscere una nuova parte del proprio Sè. 

L’altra complessa parte legata all’infedeltà è rappresentata dal grande dolore del partner che subisce il tradimento: chi viene tradito attraversa un vortice di insicurezza e di confusione perché tutto quello che di sicuro e rassicurante aveva costruito insieme all’altro è crollato, ed anche i momenti felici, soprattutto quelli più intimi, sono venuti meno e non possono essere più portati alla mente con amore ed affetto. La ferita intima di una tale mancanza di fiducia tocca l’autostima, ci si sente meno meritevoli di essere amati, si può provare vergogna ed umiliazione. Il carico emotivo è devastante, perché dopotutto il nostro partner ci sta comunicando che non siamo più così unici e speciali come avevamo creduto, mandando in frantumi il cuore di una relazione ed i progetti di una vita insieme. Il momento della rivelazione è al pari di un trauma, anche per tutta la gamma di reazioni che lo accompagnano: rabbia incontrollata, dissociazione, pensieri intrusivi sono solo alcune delle modalità con cui si può reagire ad uno choc simile.

Il tradimento è un’esperienza complessa, e sperare di non imbattersi in una situazione del genere è ovviamente auspicabile. In psicoterapia, quando incontriamo una situazione di infedeltà coniugale, l’obiettivo è capire il significato di un tale evento, e collocarlo all’interno della storia di quella specifica relazione: per quanto possa sembrare assurdo, il tradimento (emotivo e non) è sicuramente una ferita immensa, ma, se lo si desidera, è possibile rimarginarla. Per la coppia può addirittura diventare un’occasione per ri-conoscersi, per crescere, poiché dietro la figura del “traditore” e del “tradito” ci sono due persone, provenienti da vissuti e storie differenti. Cercare di dare un significato a ciò che è successo e comprenderne le cause non vuol dire giustificare o sminuirne la portata; significa dare una forma più umana all’accaduto, provando ad accogliere chi abbiamo davanti con un atteggiamento non giudicante e moralizzante, mirato esclusivamente all’aiuto della coppia e/o del singolo.

Questo articolo nasce a partire dalla lettura di un libro che mi ha molto ispirata. Per chi desiderasse approfondire l’argomento, consiglio fortemente il testo della dott.ssa Esther Perel, terapeuta di fama mondiale: “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà”, edito da Solferino.

“Quando due persone devono affrontare il fatto di aver vissuto due realtà diverse ma senza che una di loro ne fosse al corrente, si tratta di un crollo devastante: pochi altri eventi nella vita di una coppia, forse solo la morte e la malattia, possiedono una forza tanto distruttiva”. (Esther Perel, 2018, pag.83)

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

SUPEREROI: LA DANZA DELLA COPPIA ATTRAVERSO IL TEMPO

Alessandro Borghi e Jasmine Trinca in Supereroi, Paolo Genovese – 2021

“Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano: qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano…” (Anna e Marco, Lucio Dalla)

Anna è una giovane, talentuosa e creativa fumettista, con un sogno nel cassetto: quello di creare un suo fumetto a tema supereroi, affidando la propria matita al suo alter ego, Drusilla. Niente fotografi morsi da ragni, nessun orfano che combatte i criminali per vendicare la propria famiglia: per Anna i veri supereroi sono le coppie, quelle formate da gente comune, che nonostante il tempo, gli ostacoli, gli imprevisti, i problemi, le incomprensioni, i dolori della vita, scelgono di rimanere insieme. Dalla sua creatività nascono delle rubriche – le strisce – (quasi sempre autobiografiche), a cui il suo capo darà fiducia e che, andando avanti con gli anni, prenderanno le sembianze di un vero e proprio fumetto con storie create ad hoc (ma pur sempre autobiografiche). Nella vita privata, invece, Anna evita di incastrarsi nelle relazioni sentimentali, sembra viverle con poca fiducia, instabilità ed incertezza. Finché casualmente, in un giorno di pioggia, incontra Marco, razionale professore universitario di fisica, che per quanto si sforzi di applicare regole e teoremi alla propria vita privata, finisce per essere travolto da un sentimento irrazionale ed intenso che li unirà e che verrà sviscerato lungo tutto la durata di questo lungometraggio, dal titolo, appunto, “Supereroi”. 

Perché vi parlo di questo film? Semplice: perché trovo che da una prospettiva prettamente psicologica illustri molto bene, grazie al gioco di flashback di cui si compone la pellicola, come i membri di una coppia si scelgano, quali bisogni portano, come si cambia nelle modalità di relazionarsi nel corso degli anni, come guardano se stessi, come si evolvono e come evolve, con loro, il legame, e come il legame stesso cambia a seconda degli eventi che accadono.

Il contesto, ma soprattutto il tempo (concetto maestro che sostiene la sceneggiatura) in cui si susseguono le varie fasi della formazione della coppia e dello sviluppo del legame, permettono di osservare come, nel tempo, appunto, la coppia danza lungo il trascorrere degli anni, rendendola protagonista di innumerevoli rinegoziazioni del cosiddetto “patto implicito o segreto“, rappresentato da tutti quei bisogni, quei valori, quelle aspettative, quelle speranze che non vengono esplicitamente condivisi, ma che ciascun partner ha sviluppato lungo il corso della sua storia personale e grazie ai modelli identificativi con le persone che si sono prese cura di lui o di lei. (Scabini, Cigoli, 2000).

Ma andiamo per gradi. Quando Anna e Marco si incontrano sono subito attratti l’uno dall’altra: l’attrazione è solo uno degli elementi costitutivi su cui si fonda il patto, e si basa sul portare i propri bisogni, paure, desideri e valori che vanno ad incastrarsi con quelle dell’altro partner, in un determinato arco temporale. Ma non solo: anche se non ne siamo spesso troppo consapevoli, un altro elemento fondamentale che rappresenta la base a partire dalla quale ci riferiamo per poter conoscere ed incontrare l’altro è la nostra famiglia “interna”, ovvero quell’insieme di modalità relazionali che abbiamo appreso a partire dai nostri modelli di riferimento familiari, e che poi “utilizziamo” quando ci mettiamo in relazione con il partner.

Le coppie, dunque, sviluppano un proprio sistema di credenze condiviso: ognuno porta nella relazione miti, valori, idee, aspettative, che poi vengono modellate, rinforzate o modificate reciprocamente nella relazione a due. Il contesto culturale e sociale delle famiglie di origine relativo ai ruoli, ai diritti e alle responsabilità di ciascun partner esercita un’influenza tanto potente da rappresentare le fondamenta del patto: la riuscita o il fallimento di tale legame dipenderà dal funzionamento o meno del patto stesso, che deve essere ‘sottoscritto’ da ogni coppia, in considerazione delle inevitabili somiglianze e differenze dei partner.

Ad esempio, senza voler rivelare troppo della trama, uno degli aspetti che colpisce di Anna e Marco (e che ci dice molto anche di loro come individui e della loro storia personale) è che non sia presente una solida rete familiare (e che forse rappresenta proprio un elemento di vicinanza per entrambi), ma piuttosto una discreta rete amicale su cui poter contare nei momenti di difficoltà che la coppia incontrerà nel corso degli anni. Nei momenti in cui il patto implicito viene messo in crisi, tutto ciò che Anna aveva visto in Marco (e viceversa), e che li aveva portati a scegliersi, tutti gli aspetti idealizzanti, si trasformano in una profonda delusione che li porta ad allontanarsi, per poi ri-scegliersi di nuovo per ciò che sono realmente. Ogni volta che Marco ed Anna vivono dei momenti di criticità vengono chiamati a ridefinire i propri ruoli e mansioni nei confronti della famiglia d’origine e con la rete estesa di amicizie, oltre che ristabilire di volta in volta i propri confini.

Il tempo, come già detto in precedenza, rappresenta un elemento chiave nella trama del film, ma nella realtà rappresenta un concetto che assai caratterizza il patto di coppia. L’arco temporale del film è rappresentato da un periodo di venti anni, durante i quali è davvero evidente il lavoro che Anna e Marco fanno per affidarsi e riaffidarsi l’uno all’altra durante i momenti di crisi, dimostrando che l’incontro avvenuto, quando c’è stato, ha permesso uno scambio di bisogni e di attese che non sempre risulta soddisfacente per tutta la durata della danza di coppia, e che a volte ci si trova davanti ad uno ‘sconosciuto’, e non alla persona che si è scelto. La coppia, così come l’individuo, è in continua evoluzione perché segue la dinamicità dei nostri cambiamenti, e non è scontato che un legame, costituitosi anni prima, possa fondarsi su un unico tipo di scambio.

Anna e Marco, così come tutte le coppie, ci mostrano che le situazioni di rigidità (di ruoli, di aspettative, di bisogni, ecc) non permettono un’evoluzione del patto, ma che al contrario, in una tale fissità, non può essere né rilanciato né riformulato. Come a dire: “Ci siamo scelti, ci siamo scambiati profondamente tanto, ci siamo aiutati, abbiamo risposto a determinate aspettative, ma adesso non basta più. C’è bisogno di impegnarsi e di dedicarci a riformulare un progetto di vita coerente con gli elementi che, ad oggi, servono per realizzarlo”. Affrontare questo passaggio è possibile, come è possibile poter ‘rinegoziare’ il patto tutte le volte in cui la coppia è protagonista di eventi critici come la nascita di un figlio, un lutto, una malattia, un cambio di lavoro, un trasferimento, e tutta quella serie di eventi che possono mettere in ‘crisi’ in primis la propria individualità nel corso del tempo.

Forse è per questo che, nel film, si parla delle coppie come supereroi: il loro potere sta nel trovare la chiave giusta per rimanere insieme e sconfiggere il loro acerrimo nemico, il tempo. Non sono completamente d’accordo: se c’è un aspetto che ho imparato proprio dal lavoro clinico con le coppie è che il trascorrere del tempo, e la maggior conoscenza di se stessi, possono offrire un’importante opportunità: la possibilità di incontrare l’altro in un modo più intimo ed autentico. E’ lì che avviene l’incontro, proprio come accade ad Anna e Marco quando tutte le corazze vengono giù, e si ritrovano l’uno “nudo” di fronte all’altra.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

(a cura di) ANDOLFI M., (1999), La crisi della coppia – Una prospettiva sistemico relazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano.

SCABINI E., CIGOLI V., (2000), Il famigliare – Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Légami o legàmi: il NO in amore come strumento di conoscenza di Sè stessi

Il mondo relazionale di ognuno di noi, che si sviluppa attraverso i rapporti con i gruppi a cui apparteniamo, è fondamentale per la nostra sopravvivenza: il bisogno di appartenere ci riguarda fin dalla nascita, quando veniamo accolti nella nostra famiglia d’origine. E’ grazie ai legami affettivi con la nostra famiglia che possiamo esplorare il mondo, sentendoci protetti, e riconoscendo quel punto di riferimento fondamentale da cui poter ritornare ogni qualvolta ne sentiamo il bisogno. La sicurezza e la fiducia verso noi stessi saranno tanto più valide quanto sentiremo solidi i legami familiari: essi raccontano la storia affettiva di ognuno di noi, permettono di dare senso alle relazioni e di dare differenti tonalità affettive ai diversi rapporti con gli altri.

Non meno importante, anche la capacità di saper definire e conoscere i propri confini personali è direttamente correlata alla flessibilità ed alla sicurezza che abbiamo sperimentato all’interno delle relazioni familiari, rivelando quanto liberamente ed autonomamente saremo in grado di amare nella vita di coppia. La differenziazione è quel processo grazie al quale diventiamo più “autenticamente” noi stessi, pur mantenendo attivo il legame con chi amiamo: è un processo di modellamento individuale che dura per tutta la vita, e nella coppia si contrappone al bisogno di stare insieme. La differenziazione, infatti, richiede l’equilibrio di due forze vitali basilari: la spinta all’individualità, che ci spinge a stare per conto nostro e a creare la nostra identità, e la spinta alla razionalità, che ci porta a desiderare di essere parte di un gruppo.

Abbandonare la propria individualità per restare uniti al partner è, a lungo termine, fallimentare, come anche abbandonare la relazione per mantenere la propria individualità. In altre parole, la differenziazione influenza enormemente il nostro modo di porci in relazione perché rappresenta la capacità di mantenere il senso di Sè quando siamo emotivamente e/o fisicamente vicino agli altri, soprattutto se diventano sempre più importanti per noi. Senza di essa non sarà possibile restare fermi sulla nostra posizione quando il partner, gli amici, o la famiglia faranno pressione su di noi, perché se è vero da un lato otteniamo il vantaggio di garantirci la loro vicinanza, dall’altro rischiamo di “perdere” noi stessi. Questo profondo bisogno di “fusione” con l’altro è inconscio, ed è in grado di infrangere tutti i valori ed i confini che conferiscono una struttura alla nostra vita: il “prezzo” che pagheremo per assecondare questo simbiotico desiderio inconscio sarà rappresentato dalla rinuncia a condurre una vita basata su libere scelte individuali, e renderà impossibile lo sviluppo personale ed una propria autonomia.

Peter Schellenbaum, noto psicanalista, ci parla della “tragedia della coppia felice”, descrivendo tutte le pressioni delle immagini stereotipate che ogni coppia subisce: una coppia felice non litiga, non soffre, si riconosce da quanto si mostra felice davanti agli altri, la sessualità funziona alla grande, conosce solo coppie che a loro volta sono felici, e hanno figli felici che vivono in mondi altrettanto felici. Questi dogmi producono un’eccessiva pressione sulla coppia, al punto da sentirsi in dovere di adattarsi ed essere tutt’uno con l’altro, portando i partner ad inibire una comunicazione autentica, ma soprattutto non consentendo l’autorealizzazione del singolo all’interno della coppia.

Dopo l’innamoramento dei primi tempi, la riuscita di un amore è rappresentata dal quel passaggio in cui riprendiamo le distanze e ritorniamo alla nostra posizione ‘Io’, per poter mettere meglio a fuoco il percorso tra il vecchio punto di vista ed il nuovo che ci ha coinvolto così intensamente. Dalla fusione passiamo alla tensione, intesa come due individualità distinte e differenti che si uniscono: questo passaggio rappresenta ciò che Schellenbaum definisce come il “NO” in amore, e che si può tradurre come “IO NON SONO TE“, o anche “TI AMO IMMENSAMENTE, MA NON AL PUNTO DA PERDERMI ED IDENTIFICARMI CON TE“. L’unione, dunque, è resa possibile dall’aver riconosciuto i propri confini e dall’averli distinti da quelli del partner. In quest’ottica, l’amore non si ridurrà ad un’egocentrica contemplazione della propria immagine, poiché la dedizione vera ed autentica per il partner produce anche la conoscenza di Sè stessi. Dovremmo, quindi, abituarci a considerare l’altro come individuo, e non la metà della coppia: anche la persona che amiamo di più non è solamente un partner, ma soprattutto un individuo, “qualcuno” a prescindere da noi. Dal buon esito del “no” in amore, dipenderà la visione che abbiamo di noi stessi e del mondo, e saperlo utilizzare correttamente ha dirette conseguenze su ciò che succede all’interno dello spazio di coppia.

Un aspetto importante, infatti, è rappresentato anche dal modello di coppia con cui siamo cresciuti e che portiamo nelle relazioni sentimentali. Il modello genitoriale “avuto in eredità” può rappresentare un modello di riferimento (o di pressione) rispetto alla propria modalità di vivere le relazioni affettive: ad esempio, se ci è stato “insegnato” che i litigi, le critiche, l’aggressività, le emozioni negative devono essere assolutamente banditi dalla vita di coppia, pena la rottura, è possibile che saremo dei partner sempre cortesi e sintonici con l’altro. Questa inconsapevole (e probabile) adesione ai mandati familiari potrebbe non consentire alla coppia di condividere apertamente i propri bisogni e sentimenti più profondi: l’amore consiste nell’arrendersi e nel dedicarsi attivamente al Tu, quindi anche a condividere col Tu le parti meno interessanti e sconcertanti della propria personalità. Ecco perché due persone che si amano, dovrebbero partire dal presupposto che non si completano in nessun senso, ma nonostante questo si amano, assumendosi la responsabilità di definire la propria individualità e gli aspetti che la compongono.

Nel legame d’amore, infatti, è importante saper imparare ad integrare: si può essere infelici, infedeli, confusi, folli, cattivi e si può fare spazio a quelle che potremmo definire “esperienze contraddittorie”: quante emozioni distruttive possono risvegliarsi in una coppia legate anima e corpo? E’ importante sottolineare che queste esperienze non devono necessariamente essere agite, tuttavia è fondamentale saperle riconoscere: dalla tensione tra si e no, tra bene e male, tra buono e cattivo, tra costruzione e distruzione, tra vita e morte, scaturiscono quell’energia, quella forza e quei significati che danno energia e vitalità alle vite di due persone che si amano, oltre che offrire ad ognuno una possibilità di crescita e conoscenza individuale.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Schellenbaum P., (1992), Il No in amore, red! – Il Castello, Cornaredo (MI).

Schnarch D., (1977), La passione nel matrimonio – Sesso e intimità nelle relazioni d’amore, Raffaello Cortina Editore, Milano.

ESSERE ADOLESCENTI NELL’ERA DEGLI ‘I-GEN’: LA SOLITUDINE RELAZIONALE DIETRO LO SCHERMO

Il periodo estivo, si sa, rappresenta quasi per tutti, giovani e meno giovani, un momento in cui i frenetici ritmi quotidiani vanno a rallentarsi per fare spazio al relax e ad un maggior tempo libero: in parole povere, diamo il benvenuto alle tanto desiderate vacanze!

Per svariati motivi, i mesi estivi, inoltre, rappresentano un periodo dell’anno in cui le relazioni sociali aumentano: il rallentare del tempo e la temporanea pausa dai soliti tram tram quotidiani ci portano ad organizzare e a prendere parte, con maggiore frequenza, a feste, grigliate, giornate al mare e/ o in montagna, viaggi, cene, rimpatriate, concerti, insomma tutte occasioni che rappresentano un modo per appagare quel maggiore bisogno di leggerezza e socialità che l’estate porta con sé.

Eppure, soprattutto tra le ultime generazioni, può accadere che l’avvento delle alte temperature e l’aumentare del tempo libero rappresentino un momento estremamente faticoso per relazionarsi maggiormente faccia-a-faccia, con la conseguenza di lasciarsi andare ad un vizioso circolo di solitudini, o, al più, sostituendo le interazioni virtuali a quelle in carne ed ossa. Potrebbe sembrare, dunque, che l’attività “dietro lo schermo”, che sia di un pc o di uno smartphone, e l’utilizzo delle piattaforme social, dovrebbero aiutare a sentirci meno soli e a circondarci da amici in ogni momento, tanto quanto tra persone in carne ed ossa, ma non è detto che sia propriamente così.

Nel 2017 la dott.ssa Jean Marie Twenge, docente di Psicologia alla San Diego University, grazie ad un accurato ed appassionato studio, ha presentato il fenomeno delle “iGeneration”, bambini e ragazzi nati tra il 1995 ed il 2012; la dott.ssa Twenge ha evidenziato che, tra le tendenze principali che definiscono tali generazioni, e quindi, l’intera società, vi è l’incorporeità, cioè il declino delle interazioni sociali, e l’isolamento, privilegiando la tendenza all’iperconnessione, ovvero la scelta del cellulare a discapito di altre attività.

Sembra che gli iGen, che trascorrono numerose ore della loro giornata sui social, in realtà siano più propensi ad ammettere: “Spesso mi sento solo”, “Spesso mi sento escluso”, “Spesso vorrei avere più amici veri”, dando conferma del fatto che gli adolescenti che passano più tempo con gli amici in carne ed ossa siano più felici, meno soli e depressi, a differenza di quelli che trascorrono intere ore, se non giorni, sui social, risultando più tristi e solitari.

Tale studio sembrerebbe confermare che le relazioni vis-à-vis rappresentino un importante fattore di protezione proprio per difendersi dalla depressione e dalla solitudine, non solo nel periodo estivo, ma in generale: l’uso massiccio e costante dei social rischia di diventare un misero surrogato dei legami emotivi e delle abilità sociali, rischiando di contribuire alla crescita della depressione e di altri disturbi correlati alla salute mentale tra i teenager.

Gli iGen, che di fatto saranno gli adulti “di domani”, stanno crescendo in un mondo dove la comunicazione online prevale sempre più, ma non possiamo non considerare che le relazioni e le abilità sociali saranno sempre necessarie: per dare esami all’università, per viaggiare, per lavorare, per crearsi una famiglia, per dare un senso alla propria esistenza. Anche se spesso le esperienze con i social media sono positive e aiutano ad integrarsi, queste non possono assolutamente sostituire le relazioni concrete: “Se hai contatti con le persone in carne ed ossa, stare con loro ti porta ad avere emozioni reali. Fare qualcosa insieme, ottenere risultati insieme, ti fa stare bene, capito? Si condividono emozioni, si litiga e si fa pace. Con i social media non si provano davvero queste sensazioni“, dice Kevin, 17 anni.

Le abilità sociali richiedono impegno ed esercizio, come imparare a leggere e a scrivere: per questo è importante incentivare gli iGen a svilupparne, poichè a differenza dei loro genitori, sono sicuramente meno motivati a credere di più in tali competenze. Spesso conoscono l’emoji più adatta per ogni occasione, ma non la giusta espressione del viso, come guardare le persone negli occhi, parlarci insieme, comprenderne i sentimenti.

Insomma, come adulti e come genitori delle generazioni future, l’impegno che possiamo e dobbiamo assumerci è di far capire ai nostri figli che le relazioni rappresentano un vero e proprio investimento per il loro futuro: iGen (e non!), mollate la presa visiva dagli schermi ed iniziate a guardarvi e a parlarvi di più faccia-a-faccia!

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Twenge Jean Marie, (2018), “Iperconnessi – Perchè i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti“, Einaudi Editore, Torino.

DANZANDO CON LE RELAZIONI

La danza della vita, Edvard Munch, 1899, Galleria Nazionale di Oslo.
La danza dell’amore di una donna, attraverso le varie fasi del ciclo di vita.

” I rapporti si scelgono e subiscono, si costruiscono e distruggono

vari versatili e variabili, non sottometterli a una norma.

E pensare che alle volte sembra ci imprigionino,

e pensare che altre volte invece non ci bastano

uno che ci faccia ridere, un altro piangere,

come sempre, come ovunque, come noi.

Niccolò Fabi, Rapporti

Il mio interesse per le relazioni, per i rapporti, probabilmente nasce nel momento in cui sono venuta al mondo: sono sempre stata incuriosita ed affascinata dall’interazione con l’altro, dall’ascoltare altre storie diverse dalla mia, dello stare in contatto.

Dunque, come mai la scelta di pensare alle relazioni come uno spazio terapeutico e metaforico in cui poter danzare, assieme? La danza, se vista come un linguaggio accessibile a tutti, rappresenta uno strumento di inclusione sociale, e l’utilizzo che facciamo del nostro corpo, nel suo significato originario, si mostra come veicolo primario di cui disponiamo per relazionarci con il mondo. 

In psicoterapia avviene la stessa cosa: che sia un percorso individuale, di coppia o familiare, terapeuta e paziente decidono di mettersi in relazione attraverso il proprio corpo, e a seconda del tipo di percorso scelto. Potremmo trovarci davanti ad una coreografia in cui è il solo paziente ad esserne protagonista; oppure un passo a due, come nella terapia di coppia; o ancora, una coreografia di gruppo, nel caso di una terapia familiare. Il palcoscenico su cui ci si esibisce è rappresentato dallo spazio terapeutico che il singolo, la coppia o la famiglia co-costruisce assieme al proprio terapeuta.

Il movimento è un aspetto fondamentale della relazione terapeutica, che porta con sè l’obiettivo della possibilità di scelta per il soggetto in terapia. E’ un processo di continua trasformazione, all’interno del quale avvengono numerosi scambi di significati. Ecco perchè, quando parliamo di relazione tra due o più individui, la si può paragonare ad una danza in cui si è in funzione reciproca: nello specifico della relazione terapeutica, il paziente è in funzione del terapeuta, e viceversa.

Il cambiamento e la crescita, dunque, non avvengono perché è il terapeuta a sollecitarlo, ma perché si viene a creare una relazione in cui il singolo, la coppia o le famiglie si sollecitano a vicenda, all’interno di una propria sinfonia, con l’obiettivo di trovare un proprio ritmo ed un proprio tempo, esattamente come nella danza.

Questo blog nasce dal desiderio di poter condividere, con chi lo visiterà, numerosi aspetti della mia professione di psicologa e psicoterapeuta, e degli interessi che gravitano attorno a queste discipline, a me molto care.

Buona navigazione!

Dott.ssa Valeria Gonzalez