“Unorthodox”: la forza della resilienza – Storia di una rinascita

Quand’ero bambina aspettavo di crescere, di accumulare esperienze e fare delle scelte, di formarmi come persona. Quella persona, o quella sembianza di una persona, aveva delle radici. Solo quando diventai più grande mi chiesi se sarei sempre stata così – se il modo in cui si forma una persona determina per forza di cose quella che sarà in futuro. […] Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi. Chiamatela trasformazione. Metamorfosi. Slealtà. Tradimento. Io la chiamo un’educazione.

Tara Westover – L’educazione

Sono ormai giorni, settimane, mesi che ci vedono protagonisti di un evento storico senza precedenti, la pandemia globale da Covid-19: abbiamo attraversato (e stiamo tutt’ora attraversando) giorni durissimi che, credo, difficilmente cancelleremo dalle nostre menti. Il campo della salute mentale che tanto amo e di cui mi occupo, mi ha portato ad osservare cosa stesse accadendo intorno a noi, e tra le varie dinamiche a cui ho avuto modo di assistere è che siamo letteralmente sommersi da una quantità spropositata di consigli e/o suggerimenti su come e cosa mangiare in quarantena, quali sono gli esercizi fisici più indicati per combattere la sedentarietà, quali libri leggere, come combattere l’ansia e l’angoscia per il futuro, e tante tantissime altre indicazioni per trascorrere e gestire il tempo “nel miglior modo possibile”, in questa fase storica che ci fa sentire sospesi ed immobili.

Come psicoterapeuta, nel mio piccolo, sento molto la necessità di condividere una riflessione elaborata anche da diversi altri colleghi: più che tenerci costantemente impegnati “a fare qualcosa”, credo che accogliere le nostre emozioni per come ci si presentano e prendercene cura, positive o negative che siano, sia un atto doveroso verso noi stessi, un vero e proprio gesto d’amore.

A tal proposito, se vi va di approfondire queste riflessioni (e non solo), vi invito a leggere su http://www.psicologiafondi.com, un interessante post della collega Alessandra di Fazio, il link lo trovate qui: https://psicologiafondi.com/2020/03/24/coronavirus-nuovi-territori-relazionali-tra-paure-e-risorse/.

In altre parole, potremmo “approfittare” di questa fase per prenderci cura della nostra salute mentale, per metterci in contatto con i nostri pensieri ed emozioni, come anche osservare la nostra mente per avere un’idea più chiara sulle strade che vorremo percorrere una volta che questa situazione di immobilità si trasformerà in una fase più dinamica (perché, presto o tardi, succederà). Siamo animali sociali, lo sappiamo: è innaturale vivere reclusi tra quattro mura, senza la possibilità di poter interagire fisicamente con le persone che fanno parte dei vari ambiti della nostra esistenza. Tuttavia, per chi ha avuto l’immensa fortuna di stare bene e al sicuro, la pandemia che stiamo vivendo ci sta offrendo delle possibilità mai viste prima, come, appunto, il poter “concimare” la nostra mente, magari selezionando con cura il tipo di “fertilizzante” che vogliamo utilizzare: le storie che parlano di speranza, di coraggio e di rinascita rappresentano sicuramente una spinta per arginare i momenti più aridi delle nostre giornate.

E a proposito di concimi, rinascite e nuove primavere, oggi vi parlo di “Unorthodox“, che, a mio avviso, non è solo una miniserie (presente su Netflix), ma, in un periodo come questo, la definirei quasi una carezza rassicurante: è una storia che parla di sistemi relazionali e familiari, di riti e rituali religiosi ultragenerazionali dalla cui lealtà non si può evadere. Ma è anche (e soprattutto) la storia vera di una giovane coraggiosa donna che ha saputo rompere le pareti di una casa che l’aveva nauseata e tenuta prigioniera da sempre, che ad un certo punto si è vista costretta a rinnegare la lealtà e le radici verso il proprio sistema religioso e familiare, per poter scegliere finalmente chi essere e trovare delle radici ancora più solide a cui poter appartenere, e di cui sentirsi parte.

La miniserie è liberamente ispirata al romanzo autobiografico di Deborah Feldman, pubblicato nel 2012, “Unorthodox – The scandalous rejection of my Hasidic roots“, ed è quasi interamente girata in yiddish. Racconta la storia di Esther (Esty): sposa a soli 17 anni per un matrimonio combinato, Esty vive secondo le leggi degli Ebrei Chassidici, una comunità ultraortodossa confinata nel distretto di Williamsburg a New York, ed ossessionata dall’interpretazione letterale dei precetti del Talmud e dal rispetto maniacale delle proprie radici ebraiche. La particolarità, infatti, è che chi appartiene a questo tipo di credo sceglie di vivere in una sorta di isolamento sociale perenne, rispetto a chi non fa parte della loro comunità: è severamente vietato ogni contatto che non sia lavorativo col mondo esterno, come anche l’utilizzo della tecnologia, se non strettamente indispensabile.

Ma soprattutto, questa serie mostra in maniera evidente che la religione, non importa quale, quando diventa fanatismo, rappresenta un’oasi felice dietro la quale si celano comportamenti inaccettabili, e che la più benevola memoria di un dolore passato, si può trasformare in una scusa per corrompere e generare “adepti” di un mondo che invece di aprirsi, si chiude a prigione per difendersi da nemici qualificati a priori. Più in generale, Esty, grazie alla sua storia, ci mostra come un popolo, a lungo oppresso e perseguitato, invece di affidarsi e di credere nella cooperazione col prossimo, ha scelto di avere paura e di rinunciare al coraggio, di non avere fiducia negli altri, nascondendosi all’interno di una roccaforte che, invece di proteggerli, li ha resi nemici di sé stessi.

Il risultato di un tale sistema è che viene penalizzata la parte più fragile di questa comunità, la parte femminile: Esty, come tutte le ragazze nubili della sua età, viene ridotta a merce su cui contrattare e considerata come un essere il cui unico scopo è procreare per Israele, esaltando la sua sottomissione al marito, e colmando, così, le vittime dell’Olocausto. La scena della cerimonia nuziale è assai significativa (non a caso l’ho scelta come immagine di presentazione di questo post): la sposa è coperta e consegnata dalla famiglia d’origine a quella che sta per costruire con il neo-marito, come se fosse merce da scambiare tra uomini in affari. Successivamente al matrimonio, le donne vengono private della loro individualità e del proprio corpo, costrette a vestirsi con abiti insulsi e a rasarsi i capelli a zero, concedendosi giusto il lusso di una parrucca o di un turbante colorato.

Ma Esty, una volta sposato il giovane Yanky, comprenderà che la sua vita non può ridursi ad essere “la moglie di Yanky Shapiro”, e diventerà la dimostrazione per sé stessa che “tradire” le proprie radici per poter tornare a scegliere chi essere non è slealtà, non è un peccato imperdonabile. Non riuscire a sopportare soprusi ed abusi, non riuscire ad avere rapporti sessuali con il giovane marito e a garantirgli una progenie non farà di lei una donna “sbagliata” o “guasta”. Ecco perché, un po’ per ritrovare le sue radici materne perdute, un po’ per sfida, Esty decide di scappare a Berlino, città dalla quale partì l’eccidio nazista e che ancora oggi viene guardata con sospetto dagli ortodossi. Ed è proprio a Berlino che ritroverà sé stessa, riscoprendo la passione per la musica e per il pianoforte, che studiava segretamente a New York; grazie ad un gruppo di musicisti, che poi diventeranno suoi amici, conoscerà il gusto dello stare insieme, e si innamorerà di un ragazzo che la aiuterà a prendere coscienza che la sessualità è fatta del piacere di toccarsi, di accarezzarsi, di sentire l’altro, invece che di meccanicità e di dilatatori per ragazze “sbagliate”.

Se dell’isolamento Esty, grazie al suo coraggio ed alla sua resilienza, ne ha costruito un’opportunità, chi proprio non riuscirà ad evolversi sarà suo marito Yanky: dire no al ruolo del figlio obbediente e del marito fedele ai precetti del Rabbino, finirà per essere il carnefice di Esty, in quanto non si rivelerà abbastanza coraggioso da affrontare la sua famiglia ed i loro dogmi religiosi. Tutto sommato, “un bravo ragazzo” che imparerà a piangere e a riconoscere di aver sbagliato, ma non troverà mai la stessa forza di Esty per liberarsi e ritrovare la propria individualità.

Questa storia, così come è stata magistralmente raccontata, potrebbe portarci, se vogliamo, a cogliere diversi aspetti in comune tra l’isolamento concreto che stiamo vivendo e quello vissuto da Esty: certo, sono due tipi di “cattività” completamente differenti, ma la forza interiore che spinge a voler rinascere, il bisogno di liberarsi dalle pareti che privano dell’aria aperta, il desiderio di poter tornare a relazionarsi in modo “sano”; ecco, tutti questi bisogni non ci rendono poi così tanto differenti da questa ragazza. La storia di Esty è una storia universale, che parla della capacità di trovare la propria strada, dell’arte come salvezza per l’espressione della propria individualità, della libertà di potersi sentire donne (o uomini) a prescindere dai dettami religiosi o della società, della determinazione a superare le avversità della vita grazie alla forza della resilienza.

Ma, soprattutto, parla della capacità di vedere opportunità, laddove sembrano esserci solo ostacoli ed impedimenti. Rendere un evento traumatico, una possibilità per ricostruire il proprio futuro. E in questi giorni, devo dire, che una consapevolezza del genere, ci può fare solo decisamente bene.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

Légami o legàmi: il NO in amore come strumento di conoscenza di Sè stessi

Il mondo relazionale di ognuno di noi, che si sviluppa attraverso i rapporti con i gruppi a cui apparteniamo, è fondamentale per la nostra sopravvivenza: il bisogno di appartenere ci riguarda fin dalla nascita, quando veniamo accolti nella nostra famiglia d’origine. E’ grazie ai legami affettivi con la nostra famiglia che possiamo esplorare il mondo, sentendoci protetti, e riconoscendo quel punto di riferimento fondamentale da cui poter ritornare ogni qualvolta ne sentiamo il bisogno. La sicurezza e la fiducia verso noi stessi saranno tanto più valide quanto sentiremo solidi i legami familiari: essi raccontano la storia affettiva di ognuno di noi, permettono di dare senso alle relazioni e di dare differenti tonalità affettive ai diversi rapporti con gli altri.

Non meno importante, anche la capacità di saper definire e conoscere i propri confini personali è direttamente correlata alla flessibilità ed alla sicurezza che abbiamo sperimentato all’interno delle relazioni familiari, rivelando quanto liberamente ed autonomamente saremo in grado di amare nella vita di coppia. La differenziazione è quel processo grazie al quale diventiamo più “autenticamente” noi stessi, pur mantenendo attivo il legame con chi amiamo: è un processo di modellamento individuale che dura per tutta la vita, e nella coppia si contrappone al bisogno di stare insieme. La differenziazione, infatti, richiede l’equilibrio di due forze vitali basilari: la spinta all’individualità, che ci spinge a stare per conto nostro e a creare la nostra identità, e la spinta alla razionalità, che ci porta a desiderare di essere parte di un gruppo.

Abbandonare la propria individualità per restare uniti al partner è, a lungo termine, fallimentare, come anche abbandonare la relazione per mantenere la propria individualità. In altre parole, la differenziazione influenza enormemente il nostro modo di porci in relazione perché rappresenta la capacità di mantenere il senso di Sè quando siamo emotivamente e/o fisicamente vicino agli altri, soprattutto se diventano sempre più importanti per noi. Senza di essa non sarà possibile restare fermi sulla nostra posizione quando il partner, gli amici, o la famiglia faranno pressione su di noi, perché se è vero da un lato otteniamo il vantaggio di garantirci la loro vicinanza, dall’altro rischiamo di “perdere” noi stessi. Questo profondo bisogno di “fusione” con l’altro è inconscio, ed è in grado di infrangere tutti i valori ed i confini che conferiscono una struttura alla nostra vita: il “prezzo” che pagheremo per assecondare questo simbiotico desiderio inconscio sarà rappresentato dalla rinuncia a condurre una vita basata su libere scelte individuali, e renderà impossibile lo sviluppo personale ed una propria autonomia.

Peter Schellenbaum, noto psicanalista, ci parla della “tragedia della coppia felice”, descrivendo tutte le pressioni delle immagini stereotipate che ogni coppia subisce: una coppia felice non litiga, non soffre, si riconosce da quanto si mostra felice davanti agli altri, la sessualità funziona alla grande, conosce solo coppie che a loro volta sono felici, e hanno figli felici che vivono in mondi altrettanto felici. Questi dogmi producono un’eccessiva pressione sulla coppia, al punto da sentirsi in dovere di adattarsi ed essere tutt’uno con l’altro, portando i partner ad inibire una comunicazione autentica, ma soprattutto non consentendo l’autorealizzazione del singolo all’interno della coppia.

Dopo l’innamoramento dei primi tempi, la riuscita di un amore è rappresentata dal quel passaggio in cui riprendiamo le distanze e ritorniamo alla nostra posizione ‘Io’, per poter mettere meglio a fuoco il percorso tra il vecchio punto di vista ed il nuovo che ci ha coinvolto così intensamente. Dalla fusione passiamo alla tensione, intesa come due individualità distinte e differenti che si uniscono: questo passaggio rappresenta ciò che Schellenbaum definisce come il “NO” in amore, e che si può tradurre come “IO NON SONO TE“, o anche “TI AMO IMMENSAMENTE, MA NON AL PUNTO DA PERDERMI ED IDENTIFICARMI CON TE“. L’unione, dunque, è resa possibile dall’aver riconosciuto i propri confini e dall’averli distinti da quelli del partner. In quest’ottica, l’amore non si ridurrà ad un’egocentrica contemplazione della propria immagine, poiché la dedizione vera ed autentica per il partner produce anche la conoscenza di Sè stessi. Dovremmo, quindi, abituarci a considerare l’altro come individuo, e non la metà della coppia: anche la persona che amiamo di più non è solamente un partner, ma soprattutto un individuo, “qualcuno” a prescindere da noi. Dal buon esito del “no” in amore, dipenderà la visione che abbiamo di noi stessi e del mondo, e saperlo utilizzare correttamente ha dirette conseguenze su ciò che succede all’interno dello spazio di coppia.

Un aspetto importante, infatti, è rappresentato anche dal modello di coppia con cui siamo cresciuti e che portiamo nelle relazioni sentimentali. Il modello genitoriale “avuto in eredità” può rappresentare un modello di riferimento (o di pressione) rispetto alla propria modalità di vivere le relazioni affettive: ad esempio, se ci è stato “insegnato” che i litigi, le critiche, l’aggressività, le emozioni negative devono essere assolutamente banditi dalla vita di coppia, pena la rottura, è possibile che saremo dei partner sempre cortesi e sintonici con l’altro. Questa inconsapevole (e probabile) adesione ai mandati familiari potrebbe non consentire alla coppia di condividere apertamente i propri bisogni e sentimenti più profondi: l’amore consiste nell’arrendersi e nel dedicarsi attivamente al Tu, quindi anche a condividere col Tu le parti meno interessanti e sconcertanti della propria personalità. Ecco perché due persone che si amano, dovrebbero partire dal presupposto che non si completano in nessun senso, ma nonostante questo si amano, assumendosi la responsabilità di definire la propria individualità e gli aspetti che la compongono.

Nel legame d’amore, infatti, è importante saper imparare ad integrare: si può essere infelici, infedeli, confusi, folli, cattivi e si può fare spazio a quelle che potremmo definire “esperienze contraddittorie”: quante emozioni distruttive possono risvegliarsi in una coppia legate anima e corpo? E’ importante sottolineare che queste esperienze non devono necessariamente essere agite, tuttavia è fondamentale saperle riconoscere: dalla tensione tra si e no, tra bene e male, tra buono e cattivo, tra costruzione e distruzione, tra vita e morte, scaturiscono quell’energia, quella forza e quei significati che danno energia e vitalità alle vite di due persone che si amano, oltre che offrire ad ognuno una possibilità di crescita e conoscenza individuale.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Schellenbaum P., (1992), Il No in amore, red! – Il Castello, Cornaredo (MI).

Schnarch D., (1977), La passione nel matrimonio – Sesso e intimità nelle relazioni d’amore, Raffaello Cortina Editore, Milano.

DANZANDO CON LE RELAZIONI

La danza della vita, Edvard Munch, 1899, Galleria Nazionale di Oslo.
La danza dell’amore di una donna, attraverso le varie fasi del ciclo di vita.

” I rapporti si scelgono e subiscono, si costruiscono e distruggono

vari versatili e variabili, non sottometterli a una norma.

E pensare che alle volte sembra ci imprigionino,

e pensare che altre volte invece non ci bastano

uno che ci faccia ridere, un altro piangere,

come sempre, come ovunque, come noi.

Niccolò Fabi, Rapporti

Il mio interesse per le relazioni, per i rapporti, probabilmente nasce nel momento in cui sono venuta al mondo: sono sempre stata incuriosita ed affascinata dall’interazione con l’altro, dall’ascoltare altre storie diverse dalla mia, dello stare in contatto.

Dunque, come mai la scelta di pensare alle relazioni come uno spazio terapeutico e metaforico in cui poter danzare, assieme? La danza, se vista come un linguaggio accessibile a tutti, rappresenta uno strumento di inclusione sociale, e l’utilizzo che facciamo del nostro corpo, nel suo significato originario, si mostra come veicolo primario di cui disponiamo per relazionarci con il mondo. 

In psicoterapia avviene la stessa cosa: che sia un percorso individuale, di coppia o familiare, terapeuta e paziente decidono di mettersi in relazione attraverso il proprio corpo, e a seconda del tipo di percorso scelto. Potremmo trovarci davanti ad una coreografia in cui è il solo paziente ad esserne protagonista; oppure un passo a due, come nella terapia di coppia; o ancora, una coreografia di gruppo, nel caso di una terapia familiare. Il palcoscenico su cui ci si esibisce è rappresentato dallo spazio terapeutico che il singolo, la coppia o la famiglia co-costruisce assieme al proprio terapeuta.

Il movimento è un aspetto fondamentale della relazione terapeutica, che porta con sè l’obiettivo della possibilità di scelta per il soggetto in terapia. E’ un processo di continua trasformazione, all’interno del quale avvengono numerosi scambi di significati. Ecco perchè, quando parliamo di relazione tra due o più individui, la si può paragonare ad una danza in cui si è in funzione reciproca: nello specifico della relazione terapeutica, il paziente è in funzione del terapeuta, e viceversa.

Il cambiamento e la crescita, dunque, non avvengono perché è il terapeuta a sollecitarlo, ma perché si viene a creare una relazione in cui il singolo, la coppia o le famiglie si sollecitano a vicenda, all’interno di una propria sinfonia, con l’obiettivo di trovare un proprio ritmo ed un proprio tempo, esattamente come nella danza.

Questo blog nasce dal desiderio di poter condividere, con chi lo visiterà, numerosi aspetti della mia professione di psicologa e psicoterapeuta, e degli interessi che gravitano attorno a queste discipline, a me molto care.

Buona navigazione!

Dott.ssa Valeria Gonzalez