LA DANZA DELL’INFEDELTA’ CONTEMPORANEA: IL TRADIMENTO EMOTIVO

(fonte: immagine tratta dal web)

“L’intimità è una questione di sguardo. Parlerò con te, mio amato, e dividerò con te i miei beni più preziosi, che non sono più la mia dote e il frutto del mio grembo, ma le mie speranze, le mie aspirazioni, le mie paure, i miei desideri, i miei sentimenti: in altre parole, la mia vita interiore. E tu, mio amato, mi guarderai con attenzione. Non smanettare col cellulare mentre metto a nudo la mia anima. Ho bisogno di sentire la tua empatia e la tua legittimazione. Il mio significato dipende da questo.” 

(Esther Perel (2018), “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà” Solferino, pag.65)

Per quanto antico, il tema dell’infedeltà coniugale rappresenta un argomento ancora oggi avvolto da vergogna e tabù: parlarne con oggettività è assai complesso, perché il rischio di cadere in riflessioni dal tono moraleggiante è prevedibile.

Partiamo dall’inizio: già dal primo appuntamento, quando due si incontrano, stabiliscono (anche un po’ inconsapevolmente) un insieme di regole e di ruoli, iniziando a tracciare confini per definire ciò che è dentro e ciò che fuori. Ovvero, l’io, il tu, ed il noi di coppia. L’infedeltà di coppia rappresenta una violazione del patto di fiducia tra due persone che hanno scelto di stare insieme.

Fino ad un paio di generazioni fa, il matrimonio era rappresentato da un contratto tra due individui all’interno del quale l’amore era un valore aggiunto: il vincolo matrimoniale serviva principalmente a garantire sopravvivenza economica e riscontro sociale. Paradossalmente l’infedeltà poteva rappresentare quell’area, al di fuori del legame coniugale, in cui poter sperimentare sentimenti ed emozioni, dove potersi realmente innamorare. Del piacere e della sessualità, poi, non ne parliamo perché i rapporti sessuali servivano esclusivamente a procreare: la fedeltà coniugale e la monogamia, oltre che rappresentare le basi del patriarcato imposti alle donne, servivano a garantire patrimonio e discendenza, niente di più, niente di meno. Sposarsi era per la vita, senza o con pochissime vie di fuga, bisognava restare insieme nella buona e nella cattiva sorte, finché la morte non ci avrebbe separato.

Partendo anche dall’esperienza clinica odierna con le coppie, sto osservando quanto siano cambiate moltissime cose, e quanto sia forte e frequente nei più un desiderio in particolare: oggi vogliamo essere “felici”. La felicità non rappresenta più un desiderio, un’ambizione, ma in certi casi un ordine, e a volte la pretendiamo quasi con senso di rivalsa, come se dovessimo riscattarci da chissà quante ingiustizie o delusioni accumulate magari anche a causa di quel legame che non si è rivelato secondo le nostre aspettative e ci ha reso infelici. La qualità della nostra relazione coniugale è diventata un aspetto fondamentale per il raggiungimento della “felicità”. In questo periodo storico, non sono tanto i nostri desideri ad essere diversi, ma è cambiata la forza e la motivazione nel realizzarli, anzi ci si sente quasi in obbligo a perseguire certi obiettivi, dopo svariati periodi di sofferenza. Ci sentiamo in dovere nei nostri confronti, non importa se a rimetterci saranno coloro che amiamo: noi ed il nostro benessere psichico veniamo al primo posto. 

Saranno questi i passi della nuova danza dell’infedeltà contemporanea?

Un tempo ci si tradiva perché il matrimonio era carente di amore e passione; oggi si tradisce perché il matrimonio non riesce ad offrire l’amore, la passione e l’attenzione incontrastata che ci aveva promesso e che, ad un certo punto, non abbiamo più trovato. Ci sentiamo illusi e si avverte il bisogno di cercare altrove.

Il bisogno di essere più felici può portare a volgere lo sguardo al di fuori della coppia, soprattutto quando ci sentiamo annoiati, poco capiti ed arricchiti emotivamente, con la possibilità che si venga ad affacciare un preciso desiderio: ritrovare quell’intimità emotiva attraverso il tradimento, un gesto che va a rappresentare un disperato tentativo di riaccendere quel fuoco che un tempo ci faceva sentire desiderati, speciali, visibili, degni di attenzione, e che oggi sembra essersi spento (Perel, 2018). 

Per quanto sia legittimo, pensare di poter soddisfare tutti i nostri bisogni emotivi attraverso un’unica persona è una faccenda delicata, perché potrebbe rendere la relazione più vulnerabile: consegnare nelle mani del partner il compito di renderci persone serene, felici e risolte è assai pericoloso, perché si rischia di investirlo di una serie di responsabilità che non è tenuto a rispettare in toto. 

L’infedeltà ha molto a che vedere con il desiderio di sentirsi desiderati, speciali, visibili: queste sensazioni portano, senza dubbio, un coinvolgimento che ci riporta a vita nuova, è pura energia al sapore di trasgressione che scorre nelle vene. Ecco perché si parla sempre di più dell’infedeltà come una violazione non solo dell’intimità fisica, ma anche e soprattutto emotiva: il partner, solitamente, rappresenta il nostro punto di riferimento emotivo, la sola persona con cui condividere i nostri bisogni più profondi, i rimpianti, i nostri sentimenti più inquieti. Il tradimento emotivo rappresenta un modo di ricreare, al di fuori della relazione “ufficiale”, quella vicinanza intima ed emotiva che dovrebbe essere riservata al partner: se quel legame si è costruito sull’intimità emotiva e sull’onestà assoluta, aprire la nostra vita interiore ad un terzo, pur non essendoci alcun avvicinamento fisico, potrebbe sembrare certamente un tradimento.

Tradire “emotivamente” è una possibilità che per molti rappresenta l’opportunità di vivere una realtà “parallela”, nella quale poter immaginare, scoprire e reinventare sé stessi. Innamorarci di qualcuno di estremamente differente da noi, ad esempio, qualcuno che non potrebbe mai diventare un partner di vita, rappresenta quell’evasione, quella trasgressione che ci porta a rompere le regole di una quotidianità di coppia che alcuni sentono fatta di doveri ed obblighi. La clandestinità, elemento chiave dell’infedeltà, rappresenta un modo per scoprire nuove parti di sé, una nuova identità, magari una sconosciuta ed intrigante versione di noi stessi. 

Ricostruire ed identificarsi in questi passaggi può essere di aiuto nel comprendere perché anche persone con matrimoni o relazioni soddisfacenti siano attratti dal tradire il partner: il potere seduttivo della trasgressione può rivelarsi improvvisamente, soprattutto per chi ha sempre condotto una vita normativa e “responsabile”, e più o meno consapevolmente sogna di infrangere le regole. Un vero e proprio atto di ribellione verso quei ruoli che ci sono stati assegnati o a cui ci siamo rassegnati di dover adempiere, e dai quali ci siamo sentiti imprigionati. La dimensione del tradimento può rappresentare quella possibilità di vivere le vite che non abbiamo mai vissuto, di conoscere una nuova parte del proprio Sè. 

L’altra complessa parte legata all’infedeltà è rappresentata dal grande dolore del partner che subisce il tradimento: chi viene tradito attraversa un vortice di insicurezza e di confusione perché tutto quello che di sicuro e rassicurante aveva costruito insieme all’altro è crollato, ed anche i momenti felici, soprattutto quelli più intimi, sono venuti meno e non possono essere più portati alla mente con amore ed affetto. La ferita intima di una tale mancanza di fiducia tocca l’autostima, ci si sente meno meritevoli di essere amati, si può provare vergogna ed umiliazione. Il carico emotivo è devastante, perché dopotutto il nostro partner ci sta comunicando che non siamo più così unici e speciali come avevamo creduto, mandando in frantumi il cuore di una relazione ed i progetti di una vita insieme. Il momento della rivelazione è al pari di un trauma, anche per tutta la gamma di reazioni che lo accompagnano: rabbia incontrollata, dissociazione, pensieri intrusivi sono solo alcune delle modalità con cui si può reagire ad uno choc simile.

Il tradimento è un’esperienza complessa, e sperare di non imbattersi in una situazione del genere è ovviamente auspicabile. In psicoterapia, quando incontriamo una situazione di infedeltà coniugale, l’obiettivo è capire il significato di un tale evento, e collocarlo all’interno della storia di quella specifica relazione: per quanto possa sembrare assurdo, il tradimento (emotivo e non) è sicuramente una ferita immensa, ma, se lo si desidera, è possibile rimarginarla. Per la coppia può addirittura diventare un’occasione per ri-conoscersi, per crescere, poiché dietro la figura del “traditore” e del “tradito” ci sono due persone, provenienti da vissuti e storie differenti. Cercare di dare un significato a ciò che è successo e comprenderne le cause non vuol dire giustificare o sminuirne la portata; significa dare una forma più umana all’accaduto, provando ad accogliere chi abbiamo davanti con un atteggiamento non giudicante e moralizzante, mirato esclusivamente all’aiuto della coppia e/o del singolo.

Questo articolo nasce a partire dalla lettura di un libro che mi ha molto ispirata. Per chi desiderasse approfondire l’argomento, consiglio fortemente il testo della dott.ssa Esther Perel, terapeuta di fama mondiale: “Così fan tutti – Ripensare l’infedeltà”, edito da Solferino.

“Quando due persone devono affrontare il fatto di aver vissuto due realtà diverse ma senza che una di loro ne fosse al corrente, si tratta di un crollo devastante: pochi altri eventi nella vita di una coppia, forse solo la morte e la malattia, possiedono una forza tanto distruttiva”. (Esther Perel, 2018, pag.83)

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

DI FERITE DA CURARE E DI DOLORI DI CUI SIAMO PORTATORI (IN)CONSAPEVOLI

Oh, ma perché incontro solo narcisisti patologici? “ – “Eh, ma quell* si gira così perché è bipolare!” – “Che ansia! Certo che sei proprio paranoic*!!” –  “Ma stai mangiando? Che vuoi diventare anoressic*???”

Negli ultimi tempi c’è un gran parlare di salute mentale, di devianze, di cosa è “patologico” e cosa non lo è. Affermazioni – etichette – come quelle riportate di sopra -al di là del motivo o dell’intenzione per cui vengono condivise – rischiano di farci perdere di vista chi abbiamo davanti, e di non considerare che dietro ognuno di noi c’è una complessità.

All’origine di ogni nostro comportamento, delle nostre emozioni, dei nostri atteggiamenti ci sono delle storie, alla base delle quali risiedono delle eredità emotive da rintracciare e da scoprire per capire gran parte (o quasi) delle nostre azioni, e che condizionano fortemente, nel bene e nel male, la nostra salute fisica e mentale.

Durante le mie settimane di pausa estiva, ho avuto il privilegio e l’onore di immergermi in questa lettura (L’eredità emotiva – Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma – di Galit Atlas [2022], Raffaello Cortina Editore, Milano) che ha mi lasciato una ricchezza inestimabile: di storie, di parole, di esperienza, di professionalità, di coraggio, di speranza ma soprattutto di racconti di traumi enormi a cui è stato possibile attribuire un significato differente. Le mie riflessioni a riguardo sono numerose.

Innanzitutto Galit Atlas, psicoanalista supervisore newyorkese, ha saputo accogliere e raccogliere in modo esemplare i racconti straordinari di persone che, grazie al lavoro terapeutico, hanno imparato a prendersi cura dei propri sintomi e della propria storia, e a concedersi la speranza di potersi amare ed accettare per quello che si è, senza colpevolizzarsi ulteriormente di come non avessero già fatto. 

Per noi terapeuti sistemici, il discorso della trasmissione intergenerazionale dei traumi è qualcosa di già noto: ereditiamo, nella nostra mente e nel nostro corpo, ciò di cui siamo a conoscenza, ma soprattutto tutto ciò di cui non abbiamo consapevolezza. La novità contenuta in questo testo è relativa all’epigenetica: sono stati portati a termine degli studi in cui viene analizzato il modo in cui i geni delle generazioni successive a quelle che hanno vissuto un trauma si modificano e si trasmettono. Non più solo una deduzione psicoanalitica, ma una conferma neuroscientifica: i figli dei genitori che hanno vissuto o sono stati esposti a dei traumi hanno più probabilità di presentare sintomi riconducibili ad un disturbo post-traumatico da stress, se dovessero entrare in contatto con eventi traumatici. 

Le persone che amiamo e quelle che ci hanno cresciuto vivono dentro di noi; proviamo il loro dolore emotivo, sogniamo i loro ricordi, conosciamo anche ciò che non ci è stato esplicitamente comunicato, e tutto questo plasma la nostra vita in modi che non sempre comprendiamo. Ereditiamo i traumi familiari, anche quelli di cui nessuno ci ha parlato”, dice la Atlas.

E’ un po’ come dire che viviamo una vita non totalmente “nostra”: il modo di amare, di affrontare i dolori, di gestire i cambiamenti, di attraversare il passato per capire come vivere nel presente è inevitabilmente “contaminato” dai “fantasmi” delle generazioni precedenti. Ora: capisco che, detta così, sembra che siamo totalmente destinati ad una vita complicatissima e costantemente segnata dagli errori e dai traumi non elaborati di genitori, nonni, e bisnonni.

Ed è qui che arriva la libertà di scegliere. La libertà di poter decidere se essere i protagonisti attivi del nostro futuro o, al contrario, bloccarci nella nostra storia passata. “Per evolvere ed essere creativi è necessario separarsi e vivere il futuro, anziché cullarsi nel passato”, dice la Atlas. Questo, paradossalmente, è proprio uno dei motivi per cui è così difficile potersi prendere cura della propria storia e delle proprie ferite, consapevoli o meno: vuol dire rischiare di conoscere delle parti del proprio Sè che mai avremmo immaginato di incontrare ed integrarle con quelle che già conosciamo, risignificare parti di noi e della nostra storia familiare senza filtri che vadano a proteggere ciò che ci è sempre stato presentato in un modo, ed invece è tutt’altro.

Ci vuole coraggio, determinazione e tanta motivazione: affrontare questo tutto materiale emotivo richiede di venire a patti con la consapevolezza di accettare ciò che nelle generazioni precedenti è accaduto, un materiale che magari non è mai stato elaborato. E poi accade che, un giorno, qualcuno spezza la catena: ciò che è successo, ormai non è più possibile cambiarlo, questo è ovvio. Ma poter piangere i dolori e le perdite, essere compassionevoli e comprensivi verso i propri errori e quelli delle generazioni precedenti, vuol dire che scegliamo di aprirci ad un nuovo scenario, quello della vita.

Una vita che vale la pena di essere vissuta, nonostante tutto.

Dott.ssa Valeria GonzalezPsicologa psicoterapeuta

SUPEREROI: LA DANZA DELLA COPPIA ATTRAVERSO IL TEMPO

Alessandro Borghi e Jasmine Trinca in Supereroi, Paolo Genovese – 2021

“Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano: qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano…” (Anna e Marco, Lucio Dalla)

Anna è una giovane, talentuosa e creativa fumettista, con un sogno nel cassetto: quello di creare un suo fumetto a tema supereroi, affidando la propria matita al suo alter ego, Drusilla. Niente fotografi morsi da ragni, nessun orfano che combatte i criminali per vendicare la propria famiglia: per Anna i veri supereroi sono le coppie, quelle formate da gente comune, che nonostante il tempo, gli ostacoli, gli imprevisti, i problemi, le incomprensioni, i dolori della vita, scelgono di rimanere insieme. Dalla sua creatività nascono delle rubriche – le strisce – (quasi sempre autobiografiche), a cui il suo capo darà fiducia e che, andando avanti con gli anni, prenderanno le sembianze di un vero e proprio fumetto con storie create ad hoc (ma pur sempre autobiografiche). Nella vita privata, invece, Anna evita di incastrarsi nelle relazioni sentimentali, sembra viverle con poca fiducia, instabilità ed incertezza. Finché casualmente, in un giorno di pioggia, incontra Marco, razionale professore universitario di fisica, che per quanto si sforzi di applicare regole e teoremi alla propria vita privata, finisce per essere travolto da un sentimento irrazionale ed intenso che li unirà e che verrà sviscerato lungo tutto la durata di questo lungometraggio, dal titolo, appunto, “Supereroi”. 

Perché vi parlo di questo film? Semplice: perché trovo che da una prospettiva prettamente psicologica illustri molto bene, grazie al gioco di flashback di cui si compone la pellicola, come i membri di una coppia si scelgano, quali bisogni portano, come si cambia nelle modalità di relazionarsi nel corso degli anni, come guardano se stessi, come si evolvono e come evolve, con loro, il legame, e come il legame stesso cambia a seconda degli eventi che accadono.

Il contesto, ma soprattutto il tempo (concetto maestro che sostiene la sceneggiatura) in cui si susseguono le varie fasi della formazione della coppia e dello sviluppo del legame, permettono di osservare come, nel tempo, appunto, la coppia danza lungo il trascorrere degli anni, rendendola protagonista di innumerevoli rinegoziazioni del cosiddetto “patto implicito o segreto“, rappresentato da tutti quei bisogni, quei valori, quelle aspettative, quelle speranze che non vengono esplicitamente condivisi, ma che ciascun partner ha sviluppato lungo il corso della sua storia personale e grazie ai modelli identificativi con le persone che si sono prese cura di lui o di lei. (Scabini, Cigoli, 2000).

Ma andiamo per gradi. Quando Anna e Marco si incontrano sono subito attratti l’uno dall’altra: l’attrazione è solo uno degli elementi costitutivi su cui si fonda il patto, e si basa sul portare i propri bisogni, paure, desideri e valori che vanno ad incastrarsi con quelle dell’altro partner, in un determinato arco temporale. Ma non solo: anche se non ne siamo spesso troppo consapevoli, un altro elemento fondamentale che rappresenta la base a partire dalla quale ci riferiamo per poter conoscere ed incontrare l’altro è la nostra famiglia “interna”, ovvero quell’insieme di modalità relazionali che abbiamo appreso a partire dai nostri modelli di riferimento familiari, e che poi “utilizziamo” quando ci mettiamo in relazione con il partner.

Le coppie, dunque, sviluppano un proprio sistema di credenze condiviso: ognuno porta nella relazione miti, valori, idee, aspettative, che poi vengono modellate, rinforzate o modificate reciprocamente nella relazione a due. Il contesto culturale e sociale delle famiglie di origine relativo ai ruoli, ai diritti e alle responsabilità di ciascun partner esercita un’influenza tanto potente da rappresentare le fondamenta del patto: la riuscita o il fallimento di tale legame dipenderà dal funzionamento o meno del patto stesso, che deve essere ‘sottoscritto’ da ogni coppia, in considerazione delle inevitabili somiglianze e differenze dei partner.

Ad esempio, senza voler rivelare troppo della trama, uno degli aspetti che colpisce di Anna e Marco (e che ci dice molto anche di loro come individui e della loro storia personale) è che non sia presente una solida rete familiare (e che forse rappresenta proprio un elemento di vicinanza per entrambi), ma piuttosto una discreta rete amicale su cui poter contare nei momenti di difficoltà che la coppia incontrerà nel corso degli anni. Nei momenti in cui il patto implicito viene messo in crisi, tutto ciò che Anna aveva visto in Marco (e viceversa), e che li aveva portati a scegliersi, tutti gli aspetti idealizzanti, si trasformano in una profonda delusione che li porta ad allontanarsi, per poi ri-scegliersi di nuovo per ciò che sono realmente. Ogni volta che Marco ed Anna vivono dei momenti di criticità vengono chiamati a ridefinire i propri ruoli e mansioni nei confronti della famiglia d’origine e con la rete estesa di amicizie, oltre che ristabilire di volta in volta i propri confini.

Il tempo, come già detto in precedenza, rappresenta un elemento chiave nella trama del film, ma nella realtà rappresenta un concetto che assai caratterizza il patto di coppia. L’arco temporale del film è rappresentato da un periodo di venti anni, durante i quali è davvero evidente il lavoro che Anna e Marco fanno per affidarsi e riaffidarsi l’uno all’altra durante i momenti di crisi, dimostrando che l’incontro avvenuto, quando c’è stato, ha permesso uno scambio di bisogni e di attese che non sempre risulta soddisfacente per tutta la durata della danza di coppia, e che a volte ci si trova davanti ad uno ‘sconosciuto’, e non alla persona che si è scelto. La coppia, così come l’individuo, è in continua evoluzione perché segue la dinamicità dei nostri cambiamenti, e non è scontato che un legame, costituitosi anni prima, possa fondarsi su un unico tipo di scambio.

Anna e Marco, così come tutte le coppie, ci mostrano che le situazioni di rigidità (di ruoli, di aspettative, di bisogni, ecc) non permettono un’evoluzione del patto, ma che al contrario, in una tale fissità, non può essere né rilanciato né riformulato. Come a dire: “Ci siamo scelti, ci siamo scambiati profondamente tanto, ci siamo aiutati, abbiamo risposto a determinate aspettative, ma adesso non basta più. C’è bisogno di impegnarsi e di dedicarci a riformulare un progetto di vita coerente con gli elementi che, ad oggi, servono per realizzarlo”. Affrontare questo passaggio è possibile, come è possibile poter ‘rinegoziare’ il patto tutte le volte in cui la coppia è protagonista di eventi critici come la nascita di un figlio, un lutto, una malattia, un cambio di lavoro, un trasferimento, e tutta quella serie di eventi che possono mettere in ‘crisi’ in primis la propria individualità nel corso del tempo.

Forse è per questo che, nel film, si parla delle coppie come supereroi: il loro potere sta nel trovare la chiave giusta per rimanere insieme e sconfiggere il loro acerrimo nemico, il tempo. Non sono completamente d’accordo: se c’è un aspetto che ho imparato proprio dal lavoro clinico con le coppie è che il trascorrere del tempo, e la maggior conoscenza di se stessi, possono offrire un’importante opportunità: la possibilità di incontrare l’altro in un modo più intimo ed autentico. E’ lì che avviene l’incontro, proprio come accade ad Anna e Marco quando tutte le corazze vengono giù, e si ritrovano l’uno “nudo” di fronte all’altra.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

(a cura di) ANDOLFI M., (1999), La crisi della coppia – Una prospettiva sistemico relazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano.

SCABINI E., CIGOLI V., (2000), Il famigliare – Legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina Editore, Milano.

SENTIRSI “SENTITI” – Genitori all’ascolto

L’arrivo della pandemia da Covid-19 ci ha inevitabilmente costretti a fare i conti con le conseguenze che questa inaspettata condizione ci ha posto dinanzi, soprattutto in termini di salute mentale. Nessuno ne è rimasto escluso: ogni fascia d’età, a modo suo, è stata colpita sotto diversi punti di vista. Senza nulla togliere a ciò che abbiamo vissuto noi adulti, in queste riflessioni vorrei rivolgere un occhio di riguardo generale ai bambini e agli adolescenti, una fascia della popolazione in evoluzione ed in costante cambiamento, e che quindi presenta un indiscusso livello di fragilità.

Ormai sono di dominio pubblico i segnali di insofferenza che i nostri bambini e ragazzi stanno mostrando a seguito dei mesi difficili che abbiamo vissuto, e con cui continuiamo a convivere, e sono numerosi i professionisti della salute mentale che stanno cercando di attenzionare lo stato di necessità in cui versa questa fascia d’età. 

In tal senso, il susseguirsi degli eventi pandemici, ed il loro impatto sulla nostra vita, ha riportato in superficie quello che è un tema fondamentale, ora più che mai: l’importanza di poter entrare in sintonia e di condividere le nostre emozioni, e riflettere su quanto possa essere prezioso che un genitore riesca a comunicare ed ascoltare un figlio in maniera empatica e sintonica. Questa “abilità” può essere appresa o meno nel corso della propria storia personale, e fa notevolmente la differenza: quando un genitore è in grado di comunicare e di entrare in contatto con le proprie emozioni, sa riconoscerle e decodificarne il significato; questa sorta di “autolettura”, lo aiuterà a sostenere il figlio quando sarà chiamato a sviluppare un elevato senso di empatia e sintonia e a leggere all’interno del proprio mondo emozionale.

Se ci pensiamo bene, in effetti, le emozioni rappresentano quel tipo di esperienza in grado di conferire significati alla nostra mente, e saperle condividere ci offre la possibilità di rendere più salde ed intense le relazioni con le persone che ci circondano.

All’interno di una danza relazionale, le emozioni rappresentano ciò che dà musicalità e ritmo: quando ci sintonizziamo emotivamente con qualcuno, le emozioni che si vengono a creare si integrano nella nostra mente e con quella dell’altro, e contribuiscono a creare un certo livello di risonanza emotiva che consente a ciascuna parte di quella relazione di mettersi in connessione, stabilendo un forte senso di unione e di legame. 

Anche se le fasi della crescita di un bambino si differenziano da quelle dell’adolescenza, possiamo comunque affermare che per un figlio, sia esso in tenera età sia in una fase di crescita più avanzata, sentirsi “sentito” dal proprio genitore lo aiuta dare significato alle proprie emozioni e influenza il modo di vedere sia sé stesso che i genitori: più che cercare di modificare un comportamento, per entrare in sintonia con i nostri figli dovremmo porci al loro livello, capire perché quella circostanza li rende (ad esempio) felici, tristi o arrabbiati, così da aiutarli a dare un certo tipo di valore emotivo ad una determinata esperienza. Questo tipo di connessione acquisisce una maggiore importanza soprattutto quando siamo fisicamente assenti: sentirsi pensato, presente nella nostra mente, per un figlio è una fonte di rassicurazione e di conforto, oltre che di contenimento.

Perché è così importante conoscere e codificare il nostro mondo emozionale? Per un motivo molto semplice. Quando siamo in balìa delle tempeste emozionali, entrano in gioco dei meccanismi profondi e complessi che ci difendono dall’intensità di tali tempeste, di cui ne ignoriamo il significato, ed è possibile che queste situazioni ci portino ad autocentrarci e a farci perdere di vista i comportamenti dei nostri figli, impedendoci di rispondere al loro bisogno di amore e di vicinanza, così come ne avrebbero necessità.

Se non siamo sufficientemente consapevoli delle nostre emozioni, o se siamo bloccati da questioni non risolte, è possibile che non solo non riusciremo a comprendere pienamente la nostra mente e le nostre esperienze, ma anche quella dei nostri figli: le relazioni di natura, per così dire, emozionale, sono particolarmente complicate proprio perché è necessario tener conto di un duplice punto di vista, il nostro e quello di chi abbiamo di fronte. 

Così come è importante che i nostri figli si sentano “visti”, “sentiti” per offrir loro quel grado di sicurezza emotiva che li renda capaci di potersi sperimentare nel mondo, è altrettanto importante che si sentano liberi di poter esprimere le loro emozioni, anche quelle che fanno più paura o particolarmente intense. In questo difficile periodo storico, all’interno del quale anche noi adulti abbiamo dovuto fare i conti con una miriade di vissuti emotivi spesso complessi da gestire, siamo stati travolti tutti (per elencarne qualcuno) da incertezza, paura, rabbia, tristezza, preoccupazioni, e sappiamo quanto sia stato (ed è tutt’ora) difficile garantire ai nostri bambini e ragazzi uno spazio in cui si possano sentire sicuri e liberi di condividere con noi le loro emozioni e le loro esperienze, senza aver paura di mostrarcele.

Non dare importanza a questi vissuti, o addirittura ignorarli e/o sminuirli, potrebbe essere letto da loro come un segnale di disinteresse da parte nostra, o provocare in loro un senso di vergogna, o di colpa, se non siamo pronti abbastanza per ascoltarli. 

Comprendere un figlio significa conoscere i suoi punti di forza, ma anche e soprattutto quelli di debolezza: accoglierli nella loro unicità significa aiutarli a calmarsi nei momenti di angoscia e ad aprire il loro cuore, per mostrarci il loro vero Sè. Sminuire, scoraggiare, far vergognare un bambino o un ragazzo dei propri comportamenti, o delle sue emozioni, li porterà a pensare di essere “sbagliati” e ad evitare di sintonizzarsi con l’adulto di riferimento.

La vergogna è un vissuto che può accompagnarci fino all’età adulta, e che spesso scoraggia dal mostrare il vero Sè: mettere da parte il giudizio, ed andare oltre le interpretazioni personali riguardo ciò che accade ai nostri figli, significa “vederli” per come sono realmente. Ed è uno dei regali più belli che possiamo fare loro.

Dott.ssa Valeria Gonzalez

BIBLIOGRAFIA

Siegel D. J., Hartzell M. (2016), Errori da non ripetere – Come la conoscenza della propria storia aiuta ad essere genitori, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Siegel D. J., Payne Bryson T., (2020), Esserci – Come la presenza dei genitori influisce sullo sviluppo dei bambini, Raffaello Cortina Editore, Milano

L’EUPHORIA DI ESSERE ADOLESCENTI

Lo scorso 26 settembre ha esordito sui canali Sky “Euphoria”, la nuova serie tv della HBO: colpita dal teaser/trailer promosso sui social dalla stessa Sky, (nel quale invitano tutti quegli adolescenti che vivono situazioni di disagio e/o dipendenze a chiedere aiuto a professionisti esperti in materia), ho deciso di vederla, e posso dire che ha rappresentato un’esperienza di visione davvero difficile da definire, che fa proprio del suo essere respingente e provocatoria una delle sue peculiarità.

Si, perché Euphoria ci porta in una realtà molto difficile da digerire: vi invito ad andare oltre le scene di sesso ed il facile consumo di droga e farmaci da parte dei protagonisti, e a soffermarvi sulla fragilità di una generazione costantemente sospesa tra connessione e isolamento. Anche se circondati da smartphone all’avanguardia, tablet e PC, e seppur esperti navigatori del web e del mondo social, questi giovani sono sempre soli, incapaci di gestire le relazioni e le emozioni più intense, apparentemente apatici e alla ricerca della felicità.

Le otto puntate di cui si compone la serie vedono come protagonista e narratrice delle vicende l’adolescente Rue, tornata a scuola dopo un’estate passata in comunità a disintossicarsi, dopo essere stata trovata in overdose dalla sorella minore. Nonostante l’apparente recupero, Rue continua ossessivamente a cercare di drogarsi, ma soprattutto di autodistruggersi, sopraffatta da un’ansia sociale e da un passato doloroso che la perseguita sin dall’infanzia. La sua vita prenderà una piega differente dopo l’incontro con Jules, una ragazza transgender da poco arrivata in città, e che a sua volta porta avanti un’interiore battaglia personale tra il giudizio della gente e l’attrazione verso uomini violenti e più grandi di lei.

Insieme a Rue e Jules, seguiranno le vicende di alcuni coetanei, ognuno col proprio grado di problematicità: il ritratto di una generazione che ne esce è più vicino alla realtà di quanto non possa sembrare.

Protettivamente, direi che è una serie sugli adolescenti, ma sicuramente pensata e destinata ad un pubblico adulto, data l’estrema crudezza delle scene a cui ci sottopone. Eppure, le difficoltà ed i traumi relazionali e familiari di cui si occupa, e delle conseguenze che hanno sulla vita di questi adolescenti, non sono poi così lontane da quelle che vivono i nostri ragazzi. Personalmente sono rimasta molto colpita dalla struttura narrativa di ogni puntata, in cui viene approfondita la condizione attuale dei protagonisti a partire dall’infanzia, portandomi a riflettere su quanto sia importante riconoscere ed affrontare la natura dei disagi che i nostri adolescenti sviluppano, e che a volte cercano di trovare una consolazione nelle dipendenze o nei comportamenti particolarmente trasgressivi. Come a dire: ‘è difficile connettersi con determinate emozioni, ed in mancanza di altre soluzioni, scelgo la strada dell’anestesia, dello stordimento, prendo una distanza proprio da quelle emozioni’.

Il comune denominatore è la profonda solitudine che questi ragazzi provano di fronte alle proprie sofferenze, e la mancanza di un contenitore adeguato che possa aiutarli a tollerarle. La ricerca di affetto e di amore è il motore che traina i loro agìti ,ed è il premio a cui, più o meno inconsapevolmente, ambiscono.

“Unorthodox”: la forza della resilienza – Storia di una rinascita

Quand’ero bambina aspettavo di crescere, di accumulare esperienze e fare delle scelte, di formarmi come persona. Quella persona, o quella sembianza di una persona, aveva delle radici. Solo quando diventai più grande mi chiesi se sarei sempre stata così – se il modo in cui si forma una persona determina per forza di cose quella che sarà in futuro. […] Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi. Chiamatela trasformazione. Metamorfosi. Slealtà. Tradimento. Io la chiamo un’educazione.

Tara Westover – L’educazione

Sono ormai giorni, settimane, mesi che ci vedono protagonisti di un evento storico senza precedenti, la pandemia globale da Covid-19: abbiamo attraversato (e stiamo tutt’ora attraversando) giorni durissimi che, credo, difficilmente cancelleremo dalle nostre menti. Il campo della salute mentale che tanto amo e di cui mi occupo, mi ha portato ad osservare cosa stesse accadendo intorno a noi, e tra le varie dinamiche a cui ho avuto modo di assistere è che siamo letteralmente sommersi da una quantità spropositata di consigli e/o suggerimenti su come e cosa mangiare in quarantena, quali sono gli esercizi fisici più indicati per combattere la sedentarietà, quali libri leggere, come combattere l’ansia e l’angoscia per il futuro, e tante tantissime altre indicazioni per trascorrere e gestire il tempo “nel miglior modo possibile”, in questa fase storica che ci fa sentire sospesi ed immobili.

Come psicoterapeuta, nel mio piccolo, sento molto la necessità di condividere una riflessione elaborata anche da diversi altri colleghi: più che tenerci costantemente impegnati “a fare qualcosa”, credo che accogliere le nostre emozioni per come ci si presentano e prendercene cura, positive o negative che siano, sia un atto doveroso verso noi stessi, un vero e proprio gesto d’amore.

A tal proposito, se vi va di approfondire queste riflessioni (e non solo), vi invito a leggere su http://www.psicologiafondi.com, un interessante post della collega Alessandra di Fazio, il link lo trovate qui: https://psicologiafondi.com/2020/03/24/coronavirus-nuovi-territori-relazionali-tra-paure-e-risorse/.

In altre parole, potremmo “approfittare” di questa fase per prenderci cura della nostra salute mentale, per metterci in contatto con i nostri pensieri ed emozioni, come anche osservare la nostra mente per avere un’idea più chiara sulle strade che vorremo percorrere una volta che questa situazione di immobilità si trasformerà in una fase più dinamica (perché, presto o tardi, succederà). Siamo animali sociali, lo sappiamo: è innaturale vivere reclusi tra quattro mura, senza la possibilità di poter interagire fisicamente con le persone che fanno parte dei vari ambiti della nostra esistenza. Tuttavia, per chi ha avuto l’immensa fortuna di stare bene e al sicuro, la pandemia che stiamo vivendo ci sta offrendo delle possibilità mai viste prima, come, appunto, il poter “concimare” la nostra mente, magari selezionando con cura il tipo di “fertilizzante” che vogliamo utilizzare: le storie che parlano di speranza, di coraggio e di rinascita rappresentano sicuramente una spinta per arginare i momenti più aridi delle nostre giornate.

E a proposito di concimi, rinascite e nuove primavere, oggi vi parlo di “Unorthodox“, che, a mio avviso, non è solo una miniserie (presente su Netflix), ma, in un periodo come questo, la definirei quasi una carezza rassicurante: è una storia che parla di sistemi relazionali e familiari, di riti e rituali religiosi ultragenerazionali dalla cui lealtà non si può evadere. Ma è anche (e soprattutto) la storia vera di una giovane coraggiosa donna che ha saputo rompere le pareti di una casa che l’aveva nauseata e tenuta prigioniera da sempre, che ad un certo punto si è vista costretta a rinnegare la lealtà e le radici verso il proprio sistema religioso e familiare, per poter scegliere finalmente chi essere e trovare delle radici ancora più solide a cui poter appartenere, e di cui sentirsi parte.

La miniserie è liberamente ispirata al romanzo autobiografico di Deborah Feldman, pubblicato nel 2012, “Unorthodox – The scandalous rejection of my Hasidic roots“, ed è quasi interamente girata in yiddish. Racconta la storia di Esther (Esty): sposa a soli 17 anni per un matrimonio combinato, Esty vive secondo le leggi degli Ebrei Chassidici, una comunità ultraortodossa confinata nel distretto di Williamsburg a New York, ed ossessionata dall’interpretazione letterale dei precetti del Talmud e dal rispetto maniacale delle proprie radici ebraiche. La particolarità, infatti, è che chi appartiene a questo tipo di credo sceglie di vivere in una sorta di isolamento sociale perenne, rispetto a chi non fa parte della loro comunità: è severamente vietato ogni contatto che non sia lavorativo col mondo esterno, come anche l’utilizzo della tecnologia, se non strettamente indispensabile.

Ma soprattutto, questa serie mostra in maniera evidente che la religione, non importa quale, quando diventa fanatismo, rappresenta un’oasi felice dietro la quale si celano comportamenti inaccettabili, e che la più benevola memoria di un dolore passato, si può trasformare in una scusa per corrompere e generare “adepti” di un mondo che invece di aprirsi, si chiude a prigione per difendersi da nemici qualificati a priori. Più in generale, Esty, grazie alla sua storia, ci mostra come un popolo, a lungo oppresso e perseguitato, invece di affidarsi e di credere nella cooperazione col prossimo, ha scelto di avere paura e di rinunciare al coraggio, di non avere fiducia negli altri, nascondendosi all’interno di una roccaforte che, invece di proteggerli, li ha resi nemici di sé stessi.

Il risultato di un tale sistema è che viene penalizzata la parte più fragile di questa comunità, la parte femminile: Esty, come tutte le ragazze nubili della sua età, viene ridotta a merce su cui contrattare e considerata come un essere il cui unico scopo è procreare per Israele, esaltando la sua sottomissione al marito, e colmando, così, le vittime dell’Olocausto. La scena della cerimonia nuziale è assai significativa (non a caso l’ho scelta come immagine di presentazione di questo post): la sposa è coperta e consegnata dalla famiglia d’origine a quella che sta per costruire con il neo-marito, come se fosse merce da scambiare tra uomini in affari. Successivamente al matrimonio, le donne vengono private della loro individualità e del proprio corpo, costrette a vestirsi con abiti insulsi e a rasarsi i capelli a zero, concedendosi giusto il lusso di una parrucca o di un turbante colorato.

Ma Esty, una volta sposato il giovane Yanky, comprenderà che la sua vita non può ridursi ad essere “la moglie di Yanky Shapiro”, e diventerà la dimostrazione per sé stessa che “tradire” le proprie radici per poter tornare a scegliere chi essere non è slealtà, non è un peccato imperdonabile. Non riuscire a sopportare soprusi ed abusi, non riuscire ad avere rapporti sessuali con il giovane marito e a garantirgli una progenie non farà di lei una donna “sbagliata” o “guasta”. Ecco perché, un po’ per ritrovare le sue radici materne perdute, un po’ per sfida, Esty decide di scappare a Berlino, città dalla quale partì l’eccidio nazista e che ancora oggi viene guardata con sospetto dagli ortodossi. Ed è proprio a Berlino che ritroverà sé stessa, riscoprendo la passione per la musica e per il pianoforte, che studiava segretamente a New York; grazie ad un gruppo di musicisti, che poi diventeranno suoi amici, conoscerà il gusto dello stare insieme, e si innamorerà di un ragazzo che la aiuterà a prendere coscienza che la sessualità è fatta del piacere di toccarsi, di accarezzarsi, di sentire l’altro, invece che di meccanicità e di dilatatori per ragazze “sbagliate”.

Se dell’isolamento Esty, grazie al suo coraggio ed alla sua resilienza, ne ha costruito un’opportunità, chi proprio non riuscirà ad evolversi sarà suo marito Yanky: dire no al ruolo del figlio obbediente e del marito fedele ai precetti del Rabbino, finirà per essere il carnefice di Esty, in quanto non si rivelerà abbastanza coraggioso da affrontare la sua famiglia ed i loro dogmi religiosi. Tutto sommato, “un bravo ragazzo” che imparerà a piangere e a riconoscere di aver sbagliato, ma non troverà mai la stessa forza di Esty per liberarsi e ritrovare la propria individualità.

Questa storia, così come è stata magistralmente raccontata, potrebbe portarci, se vogliamo, a cogliere diversi aspetti in comune tra l’isolamento concreto che stiamo vivendo e quello vissuto da Esty: certo, sono due tipi di “cattività” completamente differenti, ma la forza interiore che spinge a voler rinascere, il bisogno di liberarsi dalle pareti che privano dell’aria aperta, il desiderio di poter tornare a relazionarsi in modo “sano”; ecco, tutti questi bisogni non ci rendono poi così tanto differenti da questa ragazza. La storia di Esty è una storia universale, che parla della capacità di trovare la propria strada, dell’arte come salvezza per l’espressione della propria individualità, della libertà di potersi sentire donne (o uomini) a prescindere dai dettami religiosi o della società, della determinazione a superare le avversità della vita grazie alla forza della resilienza.

Ma, soprattutto, parla della capacità di vedere opportunità, laddove sembrano esserci solo ostacoli ed impedimenti. Rendere un evento traumatico, una possibilità per ricostruire il proprio futuro. E in questi giorni, devo dire, che una consapevolezza del genere, ci può fare solo decisamente bene.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

Légami o legàmi: il NO in amore come strumento di conoscenza di Sè stessi

Il mondo relazionale di ognuno di noi, che si sviluppa attraverso i rapporti con i gruppi a cui apparteniamo, è fondamentale per la nostra sopravvivenza: il bisogno di appartenere ci riguarda fin dalla nascita, quando veniamo accolti nella nostra famiglia d’origine. E’ grazie ai legami affettivi con la nostra famiglia che possiamo esplorare il mondo, sentendoci protetti, e riconoscendo quel punto di riferimento fondamentale da cui poter ritornare ogni qualvolta ne sentiamo il bisogno. La sicurezza e la fiducia verso noi stessi saranno tanto più valide quanto sentiremo solidi i legami familiari: essi raccontano la storia affettiva di ognuno di noi, permettono di dare senso alle relazioni e di dare differenti tonalità affettive ai diversi rapporti con gli altri.

Non meno importante, anche la capacità di saper definire e conoscere i propri confini personali è direttamente correlata alla flessibilità ed alla sicurezza che abbiamo sperimentato all’interno delle relazioni familiari, rivelando quanto liberamente ed autonomamente saremo in grado di amare nella vita di coppia. La differenziazione è quel processo grazie al quale diventiamo più “autenticamente” noi stessi, pur mantenendo attivo il legame con chi amiamo: è un processo di modellamento individuale che dura per tutta la vita, e nella coppia si contrappone al bisogno di stare insieme. La differenziazione, infatti, richiede l’equilibrio di due forze vitali basilari: la spinta all’individualità, che ci spinge a stare per conto nostro e a creare la nostra identità, e la spinta alla razionalità, che ci porta a desiderare di essere parte di un gruppo.

Abbandonare la propria individualità per restare uniti al partner è, a lungo termine, fallimentare, come anche abbandonare la relazione per mantenere la propria individualità. In altre parole, la differenziazione influenza enormemente il nostro modo di porci in relazione perché rappresenta la capacità di mantenere il senso di Sè quando siamo emotivamente e/o fisicamente vicino agli altri, soprattutto se diventano sempre più importanti per noi. Senza di essa non sarà possibile restare fermi sulla nostra posizione quando il partner, gli amici, o la famiglia faranno pressione su di noi, perché se è vero da un lato otteniamo il vantaggio di garantirci la loro vicinanza, dall’altro rischiamo di “perdere” noi stessi. Questo profondo bisogno di “fusione” con l’altro è inconscio, ed è in grado di infrangere tutti i valori ed i confini che conferiscono una struttura alla nostra vita: il “prezzo” che pagheremo per assecondare questo simbiotico desiderio inconscio sarà rappresentato dalla rinuncia a condurre una vita basata su libere scelte individuali, e renderà impossibile lo sviluppo personale ed una propria autonomia.

Peter Schellenbaum, noto psicanalista, ci parla della “tragedia della coppia felice”, descrivendo tutte le pressioni delle immagini stereotipate che ogni coppia subisce: una coppia felice non litiga, non soffre, si riconosce da quanto si mostra felice davanti agli altri, la sessualità funziona alla grande, conosce solo coppie che a loro volta sono felici, e hanno figli felici che vivono in mondi altrettanto felici. Questi dogmi producono un’eccessiva pressione sulla coppia, al punto da sentirsi in dovere di adattarsi ed essere tutt’uno con l’altro, portando i partner ad inibire una comunicazione autentica, ma soprattutto non consentendo l’autorealizzazione del singolo all’interno della coppia.

Dopo l’innamoramento dei primi tempi, la riuscita di un amore è rappresentata dal quel passaggio in cui riprendiamo le distanze e ritorniamo alla nostra posizione ‘Io’, per poter mettere meglio a fuoco il percorso tra il vecchio punto di vista ed il nuovo che ci ha coinvolto così intensamente. Dalla fusione passiamo alla tensione, intesa come due individualità distinte e differenti che si uniscono: questo passaggio rappresenta ciò che Schellenbaum definisce come il “NO” in amore, e che si può tradurre come “IO NON SONO TE“, o anche “TI AMO IMMENSAMENTE, MA NON AL PUNTO DA PERDERMI ED IDENTIFICARMI CON TE“. L’unione, dunque, è resa possibile dall’aver riconosciuto i propri confini e dall’averli distinti da quelli del partner. In quest’ottica, l’amore non si ridurrà ad un’egocentrica contemplazione della propria immagine, poiché la dedizione vera ed autentica per il partner produce anche la conoscenza di Sè stessi. Dovremmo, quindi, abituarci a considerare l’altro come individuo, e non la metà della coppia: anche la persona che amiamo di più non è solamente un partner, ma soprattutto un individuo, “qualcuno” a prescindere da noi. Dal buon esito del “no” in amore, dipenderà la visione che abbiamo di noi stessi e del mondo, e saperlo utilizzare correttamente ha dirette conseguenze su ciò che succede all’interno dello spazio di coppia.

Un aspetto importante, infatti, è rappresentato anche dal modello di coppia con cui siamo cresciuti e che portiamo nelle relazioni sentimentali. Il modello genitoriale “avuto in eredità” può rappresentare un modello di riferimento (o di pressione) rispetto alla propria modalità di vivere le relazioni affettive: ad esempio, se ci è stato “insegnato” che i litigi, le critiche, l’aggressività, le emozioni negative devono essere assolutamente banditi dalla vita di coppia, pena la rottura, è possibile che saremo dei partner sempre cortesi e sintonici con l’altro. Questa inconsapevole (e probabile) adesione ai mandati familiari potrebbe non consentire alla coppia di condividere apertamente i propri bisogni e sentimenti più profondi: l’amore consiste nell’arrendersi e nel dedicarsi attivamente al Tu, quindi anche a condividere col Tu le parti meno interessanti e sconcertanti della propria personalità. Ecco perché due persone che si amano, dovrebbero partire dal presupposto che non si completano in nessun senso, ma nonostante questo si amano, assumendosi la responsabilità di definire la propria individualità e gli aspetti che la compongono.

Nel legame d’amore, infatti, è importante saper imparare ad integrare: si può essere infelici, infedeli, confusi, folli, cattivi e si può fare spazio a quelle che potremmo definire “esperienze contraddittorie”: quante emozioni distruttive possono risvegliarsi in una coppia legate anima e corpo? E’ importante sottolineare che queste esperienze non devono necessariamente essere agite, tuttavia è fondamentale saperle riconoscere: dalla tensione tra si e no, tra bene e male, tra buono e cattivo, tra costruzione e distruzione, tra vita e morte, scaturiscono quell’energia, quella forza e quei significati che danno energia e vitalità alle vite di due persone che si amano, oltre che offrire ad ognuno una possibilità di crescita e conoscenza individuale.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Schellenbaum P., (1992), Il No in amore, red! – Il Castello, Cornaredo (MI).

Schnarch D., (1977), La passione nel matrimonio – Sesso e intimità nelle relazioni d’amore, Raffaello Cortina Editore, Milano.

BENVENUTO SETTEMBRE, TEMPO DI NUOVI INIZI!

Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età,
dopo l’estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità…
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità…

Francesco Guccini, Canzone dei 12 mesi

Se c’è una cosa di cui sono sempre stata convinta è che il potenziale inizio di una nuova fase della propria vita possa essere simbolicamente sancito da un giorno preciso: il primo lunedì di settembre, il vero ‘caput anni’, il vero inizio dell’anno. Ricordo che da bambina attendevo con trepidazione l’arrivo di questo mese: zaini da riempire, diari, libri, quaderni illibati tutti da scrivere, vivere e studiare, l’imminente arrivo del mio compleanno, rivedere tutti i miei compagni di scuola dopo la pausa estiva, il ritorno alla solita quotidianità che tanto rassicura i bambini. Crescendo, mi sono resa conto di aver conservato e custodito gelosamente quell’entusiasmo, quell’energia e quella carica che solo i nuovi inizi sanno offrire, e che mi hanno sempre aiutato a vedere questo periodo come un’opportunità.

Settembre rappresenta quel mese che, quando sopraggiunge, ci riporta più o meno “brutalmente” alla quotidianità, invitando a lasciarsi alle spalle la bella stagione e (per chi ha potuto concederselo) quel sano e meritato relax che ha allietato le giornate estive e ci ha fatto oziare. Le scuole riaprono i battenti, le città si riempiono e si ripopolano, la routine rallentata dalle vacanze pian piano viene sostituita dalle nostre frenetiche corse contro il tempo, gli uffici riprendono i soliti orari, i negozi riaprono e le aziende ripianificano le loro attività: insomma, settembre è un po’ come una ‘tabula rasa’, dove tutto sembra essere pronto ad essere rimesso in discussione, rinnovato, risignificato.

Perché a proposito di significati, il nono mese dell’anno porta con sé un’enorme potenza simbolica: mese numero nove, come quelli che servono per concludere approssimativamente una gravidanza, settembre può sollecitare la capacità di ri-portarci “alla luce”, a simbolo di una potenziale nascita (o ri-nascita) interiore e/o esteriore. Pensateci bene: quanti di voi hanno già pensato a piccoli o grandi cambiamenti, buoni propositi, o modifiche alla propria vita?

“Da domani alimentazione sana e palestra”; “Vorrei tanto riuscire a dare una svolta alla mia attività”; “Quasi quasi taglio i capelli e cambio colore”; “Mi piacerebbe iscrivermi a quel corso”: questi sono solo alcuni esempi degli obiettivi che solitamente tornano alla carica in questo periodo in cui siamo sicuramente più proiettati al futuro, che forse non a gennaio.

Succede, però, che a volte la ripresa dei soliti ritmi e l’incombere di un periodo che racchiude in sè potenziali crescite e cambiamenti, può risultare difficile da gestire a causa di quella che viene definita ‘sindrome da rientro‘, o ‘post-vacation blues‘. Questa sindrome, che colpisce sia uomini che donne, può presentarsi con diversi sintomi (ansia, lieve abbassamento del tono dell’umore, insonnia, nervosismo, difficoltà nella gestione della quotidianità) nella fase di passaggio tra la fine del periodo ‘vacanziero’ e la successiva ripresa delle abitudini ordinarie. Dopo aver assaporato, anche se per un breve periodo, un senso di libertà dai propri impegni e dalle proprie responsabilità, si ha la sensazione che tutto il benessere ed il buon umore guadagnato grazie alla pausa estiva, svaniscano non appena si è varcata la soglia degli impegni quotidiani.

Quando la condizione mentale del rientro diventa troppo pesante da gestire ed il solo pensiero risulta soffocante, la psicologia può esserci di aiuto: non focalizzarsi sulle preoccupazioni della routine da riprendere, ma concentrarsi sugli aspetti positivi delle vacanze, e pensare di aver potuto godere di giornate piacevoli e leggere, potrebbe rivelarsi una strategia estremamente utile. Anzi, questa sensazione di benessere dovrebbe aiutarci a ricordare che dovremmo prenderci più cura di noi stessi e di concederci almeno settimanalmente, e seppur per poche ore, dei momenti che ci aiutino a ricaricare le batterie e a prendere una pausa dai doveri quotidiani. Non conta il ‘dove’, ma il ‘come’. Anche i buoni propositi che solitamente nascono in questo periodo dobbiamo farceli amici: selezionare i cambiamenti di cui abbiamo realmente bisogno (‘pochi ma buoni’) potrebbe essere una buona idea, piuttosto che accumularne molti e correre il rischio di restare delusi ed sentirsi in colpa per non essere riusciti a portarli tutti a termine.

Ad ogni modo, se questa condizione di malessere dovesse impattare in modo significativo sulla propria quotidianità, in termini preventivi, potrebbe essere utile richiedere una consulenza psicologica, e/o eventualmente iniziare una psicoterapia: chiedere aiuto ad un professionista potrebbe essere importante per comprendere più da vicino il significato che i nostri stati d’animo vogliono comunicarci e contenere lo stress ed i pensieri correlati.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

ESSERE ADOLESCENTI NELL’ERA DEGLI ‘I-GEN’: LA SOLITUDINE RELAZIONALE DIETRO LO SCHERMO

Il periodo estivo, si sa, rappresenta quasi per tutti, giovani e meno giovani, un momento in cui i frenetici ritmi quotidiani vanno a rallentarsi per fare spazio al relax e ad un maggior tempo libero: in parole povere, diamo il benvenuto alle tanto desiderate vacanze!

Per svariati motivi, i mesi estivi, inoltre, rappresentano un periodo dell’anno in cui le relazioni sociali aumentano: il rallentare del tempo e la temporanea pausa dai soliti tram tram quotidiani ci portano ad organizzare e a prendere parte, con maggiore frequenza, a feste, grigliate, giornate al mare e/ o in montagna, viaggi, cene, rimpatriate, concerti, insomma tutte occasioni che rappresentano un modo per appagare quel maggiore bisogno di leggerezza e socialità che l’estate porta con sé.

Eppure, soprattutto tra le ultime generazioni, può accadere che l’avvento delle alte temperature e l’aumentare del tempo libero rappresentino un momento estremamente faticoso per relazionarsi maggiormente faccia-a-faccia, con la conseguenza di lasciarsi andare ad un vizioso circolo di solitudini, o, al più, sostituendo le interazioni virtuali a quelle in carne ed ossa. Potrebbe sembrare, dunque, che l’attività “dietro lo schermo”, che sia di un pc o di uno smartphone, e l’utilizzo delle piattaforme social, dovrebbero aiutare a sentirci meno soli e a circondarci da amici in ogni momento, tanto quanto tra persone in carne ed ossa, ma non è detto che sia propriamente così.

Nel 2017 la dott.ssa Jean Marie Twenge, docente di Psicologia alla San Diego University, grazie ad un accurato ed appassionato studio, ha presentato il fenomeno delle “iGeneration”, bambini e ragazzi nati tra il 1995 ed il 2012; la dott.ssa Twenge ha evidenziato che, tra le tendenze principali che definiscono tali generazioni, e quindi, l’intera società, vi è l’incorporeità, cioè il declino delle interazioni sociali, e l’isolamento, privilegiando la tendenza all’iperconnessione, ovvero la scelta del cellulare a discapito di altre attività.

Sembra che gli iGen, che trascorrono numerose ore della loro giornata sui social, in realtà siano più propensi ad ammettere: “Spesso mi sento solo”, “Spesso mi sento escluso”, “Spesso vorrei avere più amici veri”, dando conferma del fatto che gli adolescenti che passano più tempo con gli amici in carne ed ossa siano più felici, meno soli e depressi, a differenza di quelli che trascorrono intere ore, se non giorni, sui social, risultando più tristi e solitari.

Tale studio sembrerebbe confermare che le relazioni vis-à-vis rappresentino un importante fattore di protezione proprio per difendersi dalla depressione e dalla solitudine, non solo nel periodo estivo, ma in generale: l’uso massiccio e costante dei social rischia di diventare un misero surrogato dei legami emotivi e delle abilità sociali, rischiando di contribuire alla crescita della depressione e di altri disturbi correlati alla salute mentale tra i teenager.

Gli iGen, che di fatto saranno gli adulti “di domani”, stanno crescendo in un mondo dove la comunicazione online prevale sempre più, ma non possiamo non considerare che le relazioni e le abilità sociali saranno sempre necessarie: per dare esami all’università, per viaggiare, per lavorare, per crearsi una famiglia, per dare un senso alla propria esistenza. Anche se spesso le esperienze con i social media sono positive e aiutano ad integrarsi, queste non possono assolutamente sostituire le relazioni concrete: “Se hai contatti con le persone in carne ed ossa, stare con loro ti porta ad avere emozioni reali. Fare qualcosa insieme, ottenere risultati insieme, ti fa stare bene, capito? Si condividono emozioni, si litiga e si fa pace. Con i social media non si provano davvero queste sensazioni“, dice Kevin, 17 anni.

Le abilità sociali richiedono impegno ed esercizio, come imparare a leggere e a scrivere: per questo è importante incentivare gli iGen a svilupparne, poichè a differenza dei loro genitori, sono sicuramente meno motivati a credere di più in tali competenze. Spesso conoscono l’emoji più adatta per ogni occasione, ma non la giusta espressione del viso, come guardare le persone negli occhi, parlarci insieme, comprenderne i sentimenti.

Insomma, come adulti e come genitori delle generazioni future, l’impegno che possiamo e dobbiamo assumerci è di far capire ai nostri figli che le relazioni rappresentano un vero e proprio investimento per il loro futuro: iGen (e non!), mollate la presa visiva dagli schermi ed iniziate a guardarvi e a parlarvi di più faccia-a-faccia!

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Twenge Jean Marie, (2018), “Iperconnessi – Perchè i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti“, Einaudi Editore, Torino.

IMMAGINE CORPOREA E RELAZIONI: L’INCONTRO CHE CURA

“Breve storia amorosa dei vasi comunicanti”, Davide Mosca, Einaudi 2019.

La relazione col proprio corpo è, da sempre, un argomento complesso: social, mass media, pubblicità ci mostrano quanto sia importante, in un’epoca come la nostra, essere sempre al massimo delle nostre possibilità. Portare in giro per il mondo un’immagine corporea socialmente condivisa ed accettata è diventata quasi una missione di vita: è fondamentale poter mostrare un aspetto esteriore preferibilmente curato e di gradevole presenza, che possa rispettare “una forma ideale”.

Può succedere, però, che ad un certo punto della nostra esistenza, la nostra identità psichica si “perda” in quella corporea: è ciò che accade ai protagonisti del romanzo che ha ispirato questo articolo, “Breve storia amorosa dei vasi comunicanti”, di Davide Mosca, edito da Einaudi.

In un certo senso, il principio dei vasi comunicanti rincorre l’equilibrio perfetto, garantendo che due contenitori, collegati tra loro, saranno in grado di bilanciare la quantità dei liquidi contenuti al loro interno: i “vasi comunicanti” protagonisti di questo romanzo, ambientato in Liguria, sono Remo, scrittore ventiquattrenne che, dopo essere diventato obeso a seguito di varie vicissitudini, per la vergogna decide di rinchiudersi in sé stesso ed isolarsi socialmente, e Margherita, giovane liceale anoressica, alle prese col costante controllo delle calorie da ingerire, e relative difficoltà familiari da gestire.

Dopo alcuni mesi di conoscenza, a Capodanno si peseranno: Remo si ritroverà dimagrito, Margherita in netto recupero verso il suo peso forma. Le zavorre che Remo inizia a perdere, in kilogrammi e rispetto a sè stesso, passano magicamente nel corpo di Margherita, facendole riprendere peso, facendole riprendere vita.

Entrambi, almeno inizialmente, sembrano due personaggi assai differenti: col trascorrere delle pagine, conoscendoli, scopriamo che Remo e Margherita non solo sono accomunati dal desiderio di voler essere invisibili, ma che il cibo rappresenta quel canale attraverso cui condannarsi ed assolversi. Il grasso, così come l’estrema magrezza, appaiono metafore di un involucro che li isola dall’esterno, e li protegge da ciò che accade emotivamente al loro interno: “Dal cuore le emozioni salivano con fatica, e arrivavano senza più vigore al cervello”.

Attraverso il corpo, vivono la fuga dal proprio corpo e da quello altrui, sottraendosi ad ogni tipo di incontro, e si ritrovano, così, a vivere in un tempo “sospeso” (Onnis, 2014), bloccato, all’interno del quale entrambi sono impegnati nel soddisfacimento dei loro bisogni di crescita e di individuazione, comunicando, altresì, una legittima paura di crescere.

La loro, è una storia di mancata accettazione verso sé stessi, e mostra come la disistima e l’allontanamento dalla propria anima, dalla propria identità, porta ad isolarsi e a non riconoscersi più, rifiutando qualsiasi forma di legame.

Eppure, è una storia che parla di salvezza.

La soluzione, come dice lo scrittore, è un incontro: quando incontriamo qualcuno, incontriamo sempre una parte di noi, magari proprio quei lati che rifiutiamo. Per Remo e Margherita, il loro incontro rappresenterà quell’antidoto ad hoc per combattere la solitudine ed il senso di inadeguatezza che li affligge, restituendo loro la speranza e la motivazione per potersi (terapeuticamente) salvare a vicenda.

Ciò che colpisce di questo romanzo è la sua estrema concretezza, poiché porta alla luce delle importanti difficoltà relazionali che le nostre generazioni vivono, e mostra quanto queste difficoltà siano fortemente correlate allo standard estetico, gettando nella disperazione esistenziale gran parte dei nostri ragazzi e dei giovani adulti, laddove vengano a verificarsi occasioni di rifiuto o di esclusione sociale.

La possibilità di entrare in relazione con gli altri, l’esperienza di potersi affidare autenticamente ad un incontro in cui non ci si sente giudicati, ma apprezzati e riconosciuti anche nelle parti più fragili, rappresentano una vera e propria fonte di rinascita, per chi, come Remo e Margherita, e per tutti coloro che si sono immedesimati, non hanno saputo affidare da subito la propria salvezza ad una nuova possibilità: l’affascinante esperienza dell’incontro con l’altro.

Bibliografia

Onnis L. (2014), “Il tempo sospeso – Anoressia e bulimia tra individuo, famiglia e società“, Franco Angeli, Milano.

Dott.ssa Valeria Gonzalez – Psicologa Psicoterapeuta